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Carla Maria Maggi, la pittrice ritrovata
Arte moderna
Si intitola “Carla Maria Maggi. L’artista ritrovata”, la mostra già pronta a Villa Borromeo d’Adda ad Arcore, che aprirà al pubblico appena l’emergenza sanitaria in atto lo consentirà. Per i visitatori sarà una nuova occasione per conoscere il ritratto umano e professionale di una donna/artista controcorrente. Ne parliamo in anteprima con la curatrice del progetto espositivo, Simona Bartolena.
Ci può tracciare un breve profilo biografico di Carla Maria Maggi?
«Carla Maria Maggi era nata nel 1913 da un’importante famiglia milanese, discendente del poeta dialettale che porta il suo stesso nome. Carla manifesta la propria vocazione artistica fin da ragazzina. La madre è contraria e non l’asseconda. Il padre le concede di mettersi alla prova. A interrompere la sua promettente carriera di artista non sono i genitori, ma il marito, contrario al fatto che la moglie frequentasse gli ambienti di Brera “poco adatti a una ragazza della buona società”, dipingendo modelle dal vero. In particolare sembrava inaccettabile la sua consuetudine di dipingere nudi femminili, genere ritenuto sconveniente. Carla decide di non scendere a compromessi: piuttosto che diventare un’artista amatoriale dedita esclusivamente a composizioni floreali decorative, smette di dipingere. Nasconde tutte le opere nel solaio della casa di campagna, e non parla più con nessuno della propria vocazione artistica».
Come si avvicina alla pittura? Quali sono stati i suoi punti di riferimento artistici?
«La Maggi studia pittura presso uno degli artisti più apprezzati dalla borghesia cittadina del tempo: Giuseppe Palanti, professore a Brera, scenografo per la Scala, architetto, ritrattista affermato. A soli quattordici anni, Carla Maria mostra subito la propria personalità: fin dal suo primo giorno nello studio del maestro si rifiuta di disegnare calchi di gesso, come avrebbe voluto la prassi accademica, e insiste per lavorare su un modello dal vero. Palanti accetta la richiesta della giovanissima allieva e ne apprezza la sicurezza. La formazione della pittrice si svolge, dunque, negli ambienti di Brera, osservando il lavoro di artisti quali Cesare Tallone, Ambrogio Alciati, Giuseppe Amisani, tutti esponenti di una pittura dai toni intimi e raffinati, molto diffusa nei “salotti” milanesi di allora».
Quindi come mi diceva, a un certo punto della sua vita, ha dovuto mettere da parte il proprio talento artistico per suo marito…
«La risposta più semplice sarebbe imputarne la colpa esclusivamente al marito, che non volle lasciarla dipingere liberamente. Ma le ragioni sono in realtà più sfumate e profonde. Carla Maria Maggi si adeguò alle consuetudini sociali del proprio tempo, della classe a cui apparteneva. Una scelta diversa sarebbe stata davvero sorprendente per una giovane del suo mondo. Avrebbe potuto ribellarsi, certo. Ma a che prezzo? Una rinuncia dolorosa… che mi fa venire in mente molte altre rinunce simili nella storia dell’arte. Alla fine del Settecento, inizio Ottocento, lavorava a Parigi una pittrice straordinaria, che aveva anche una certa fortuna pubblica: Marie Benoist. Le fu imposto di smettere di dipingere perché al marito era stato offerto un incarico governativo importante. Lei scrive una lettera molto intensa, in cui racconta il dramma della sua rinuncia. Centocinquanta anni dopo… non è cambiato granché. E Carla Maria si adegua. Ma piuttosto che tenere “una mezza misura”, preferisce rinunciare alla propria passione. Allontanandola da sé. Forse per soffrirci meno».
Quante opere ha prodotto durante la sua breve carriera da pittrice?
«In base alle nostre conoscenze attuali, le tele sono una quarantina. Poi ci sono molte carte, alcune particolarmente interessanti. La realtà è che il corpus delle opere della pittrice non è stabile. Proprio in occasione di questa mostra è esposto un inedito, che abbiamo casualmente rintracciato di recente in una collezione privata. La Maggi dipingeva per le famiglie di amici, conoscenti, frequentatori del suo mondo. Potrebbero tranquillamente esserci ritratti o nature morte sparse per altre collezioni private di cui nemmeno i familiari sono a conoscenza».
Quali sono i suoi soggetti più ricorrenti?
«Ritratti (genere in cui davvero eccelle), nature morte e nudi. Parrebbe, allo stato attuale della conoscenza del suo lavoro, nessun paesaggio. Sono, del resto, i temi affrontati anche dal suo maestro Palanti, e più apprezzati dalla committenza borghese del tempo.
Cosa ben rara per un’artista nel suo tempo quella di dipingere anche dei nudi femminili ritratti dal vero… Ecco sì. Ho sempre ritenuto questo il vero punto di forza dell’opera di Carla Maria Maggi. Quando Palazzo Reale dedicò alla pittrice la bella mostra curata da Elena Pontiggia, mi occupai personalmente di un saggio specifico su questo tema, che già mi aveva molto colpito nel mio primo studio sull’opera della pittrice. Per una donna dipingere un nudo è un tabù da sempre. Storicamente le donne hanno faticato a ritrarre l’anatomia umana perché era loro vietato studiarla dal vero. Chi se ne occupò sollevò non pochi scandali. Ai primi del Novecento la situazione non è molto cambiata. Carla Maria Maggi era pur sempre la figlia di una famiglia della buona società cittadina, e pensare che potesse stare nell’atelier di un artista in compagnia di altri colleghi e di modelle (spesso ballerine della Scala) nude, era quantomeno preoccupante. I suoi nudi sono straordinari. A mio avviso tra le opere più belle che ha realizzato. Non c’è mai voyeurismo, ma nemmeno imbarazzo. Anche in questo caso la pittrice denota una certa autonomia rispetto agli esempi del maestro. Il suo sguardo si posa senza alcuna malizia sui corpi delle modelle, colti in pose che sanno conservare una certa naturalezza, pure nella loro evidente artificiosità. E se alcune figure rispondono pienamente al gusto dell’epoca, altre osano di più, testimoniando ancora una volta il carattere dell’artista.
Sorprende la libertà con cui la giovane pittrice affronta il tema, mettendo in scena modelli femminili poco consueti per l’epoca e, soprattutto, per l’ambiente a cui appartiene. Sebbene le modelle di Carla Maria Maggi siano, con ogni probabilità, le stesse che posano nello studio di Giuseppe Palanti, il tipo femminile proposto dalla pittrice è profondamente diverso da quello prediletto dal suo maestro. Se le donne ritratte da Palanti si atteggiano in pose languide e sensuali, che ne accentuano la femminilità, quelle dipinte dalla Maggi hanno un fascino ben più ambiguo, a tratti androgino, che le rende intriganti e moderne».
Quale affresco della sua epoca ci raccontano i suoi quadri?
«Le opere della Maggi raccontano l’alta società milanese della sua epoca: gli anni Trenta, un periodo complesso, sfumato, ricco di contraddizioni. Guardando le fotografie di famiglia si percepisce lo stesso clima, lo stesso universo che lei cattura nei propri ritratti. Le sciate a Cortina, l’uscita per l’occasione mondana, il caffè con le amiche… ma anche un’eleganza moderna, da donna che cerca la propria emancipazione, come ben evidenzia la protagonista de La sigaretta, la sua opera più famosa.
Lei è parte integrante di questo mondo, eppure nel suo essere artista c’è un accento ribelle. Come osserva Stefano Zuffi in un suo saggio sulla pittrice, l’arte è ciò che differenzia Carla Maria Maggi dalle eleganti signore al tavolino di un caffè ritratte da Marussig. La pittura le concede uno sguardo privilegiato e diverso su una società di cui lei è comunque figlia: la stessa società che le toglierà la possibilità di una carriera nell’arte».
Come sono giunti fino a noi e come è avvenuta la sua riscoperta?
«Il figlio Vittorio, nel 1997, ritrova per caso i dipinti e, chieste spiegazioni alla madre, decide di restituirle ciò che il destino le aveva tolto, facendo studiare e commentare le opere ad alcuni dei più importanti studiosi della scena artistica italiana. Carla Maria Maggi morirà nel 2004, riuscendo a vivere parte di questa riscoperta. Vittorio mi contattò poco dopo la morte della madre, per chiedermi, come studiosa della storia delle donne nell’arte, di portare a compimento gli studi su di lei. Ne nacque un libro edito da Skira dedicato alla pittrice, in cui è pubblicato quasi interamente il corpus delle opere note fino ad allora.
La riscoperta casuale dei dipinti della Maggi apre, a mio avviso, una riflessione ben più ampia. Lei è stata “fortunata”: il figlio, oltre ad avere riscoperto le opere, aveva le conoscenze, la cultura, la sensibilità e le possibilità di farle studiare e tornare visibili pubblicamente. Quante Carla Maria Maggi esistono destinate a non essere mai riscoperte? Nel mondo delle donne artiste, almeno fino alla metà del Novecento, proprio per le limitazioni e i pregiudizi sociali che ben conosciamo, questa ipotesi è da prendere senza dubbio in seria considerazione».
La riscoperta del lavoro della Maggi quale contributo fornisce alla riscoperta della pittura borghese della Milano degli anni Trenta?
«Direi innanzitutto che la pittura borghese degli anni Trenta attende in generale una sua reale riscoperta… Carla Maria Maggi è sconosciuta ai più… ma Palanti non è molto più noto tra i non addetti ai lavori…! Certamente l’opera della Maggi introduce un fattore nuovo nella scena artistica di questo tipo di pittura. Il suo sguardo appassionato e autonomo (forse proprio perché consapevole del fatto che nel suo destino non poteva esserci il professionismo a cui i colleghi uomini, da lei frequentati nello studio di Palanti, di certo ambivano) le permette uno sguardo piacevolmente diverso su temi assai diffusi. Senza volerne enfatizzare l’importanza, credo semplicemente che Carla Maria Maggi offra uno sguardo molto fresco, diretto e sincero, sulla società di cui lei stessa era parte, aggiungendo certamente qualcosa all’analisi della scena artistica milanese del tempo».