Contraddizioni e inquietudini della Nuova Oggettività, in mostra al Centre Pompidou

di - 26 Agosto 2022

In Germania alla fine del primo conflitto mondiale, la tragica esperienza della decimazione nella guerra di trincea, l’inattesa sconfitta di un popolo riunito in un patriottismo aggressivo e le dure condizioni della pace di Versailles sbriciolano non solo la monarchia imperiale ma anche lo zeitgeist inizio secolo, nel quale si erano riconosciute e rafforzate tradizioni nazionali stratificate.

All’inizio degli anni venti, nell’arte in particolare, perde senso l’utopia visionaria e spirituale della ventata espressionista che aveva visto l’apertura e la commistione fra le esperienze europee e viene avviata la ricerca di nuovi modelli di osservazione adeguati ai tempi, incentrando l’attenzione sulla realtà nazionale e sulle sue specifiche capacità produttive ed espressive.

Questa esigenza di autonomia inizialmente prende corpo in un nuovo stile figurativo distaccato, realista, cui viene dato il nome di Neue Sachlichkeit, Nuova oggettività, dallo storico dell’arte Gustav Friedrich Hartlaub che nel 1925 alla Kunsthalle di Mannheim, di cui era direttore, ne sancisce la nascita come movimento, con una mostra dirompente dallo stesso nome. E sotto questa definizione a partire dalla pittura tutte le manifestazioni creative della Germania di Weimar si ricongiungono e confrontano ispirandosi ai principi di “sobrietà, razionalità, standardizzazione e funzionalismo”. Finché nel 1933 nella stessa Kunsthalle, rimosso Hartlaub, nella mostra “Quadri del bolscevismo culturale” la nuova società nazionalsocialista avvia il processo di “restaurazione culturale” che culmina quattro anni dopo, nel 1937, a Monaco nella mostra “Entartete Kunst”, Arte degenerata, con la condanna definitiva di quelle opere e con esse di tutto il movimento.

Allemagne / Années 1920/Nouvelle Objectivité /August Sander, exhibition view at Centre Pompidou, Parigi 2022. © Centre Pompidou. Photo Bertrand Prévost

Su questo movimento artistico negli anni sono state organizzate ovunque molte mostre, in particolare in piccoli musei tedeschi. La più significativa in Italia per dimensione e qualità è stata “Neue Sacklickeit” al Museo Correr di Venezia nel 2015, in collaborazione con il LACMA di Los Angeles dove fu poi riallestita. L’ultima, “Simbolismo e Nuova Oggettività – La Galleria del Levante”, ha appena chiuso al MART di Rovereto.

L’esposizione “Allemagne/Années 1920/Nouvelle Objectivité/August Sander” organizzata a Parigi dal Centre Pompidou si colloca come un momento di riflessione esemplare e di elaborazione originale con l’intento esplicitamente didascalico di diffondere un’ampia e articolata comprensione di un periodo storico cruciale per la definizione della cultura europea e della sua formazione socio-politica.

È opportuno cercare di individuare i modi, le ragioni e gli strumenti adottati che ne definiscono questa peculiarità. A partire dal numero esorbitante di opere proposte, oltre 900 prestate da innumerevoli musei e collezioni anche private, relative ai numerosi temi affrontati; ciascuna riveste un suo interesse per il suo settore specifico, molte sono poco conosciute e, soprattutto quelle provenienti da gallerie minori tedesche, risultano per la maggior parte dei visitatori delle vere e proprie scoperte.

Allemagne / Années 1920/Nouvelle Objectivité /August Sander, exhibition view at Centre Pompidou, Parigi 2022. © Centre Pompidou. Photo Bertrand Prévost

L’articolazione dei temi di ricerca e sperimentazione in quel periodo e i loro intrecci vengono dettagliatamente descritti con un’apprezzabile capacità di documentare le infinite sfaccettature della vita sociale e della trasformazione delle sue componenti connessa all’evoluzione della temperie politica. Questa varietà di esperienze viene presentata in una trama di rimandi reciproci, nella quale le opere di artisti e fotografi, di cui molti ben noti come Otto Dix, George Grosz, Christian Schad, Max Beckmann, Gernd Arntz, dialogano sia con le altre sperimentazioni come ad esempio il Bauhaus o il teatro di Bertolt Brecht ma anche con il mondo della produzione e delle contraddizioni sociali.

La volontà di evidenziare le coincidenze e quindi l’inquietante attualità delle contraddizioni di quel periodo, nonostante sia lontano quasi cent’anni dal nostro tempo “moderno”, scavando nella ricchezza dei materiali scelti, riesce a coglierne e suggerirne il senso di antefatto e di prefigurazione rispetto alle icone della modernità e della nostra contemporaneità sia sul piano strettamente espressivo che sul terreno dell’analogo disagio esistenziale in essi contenuto.

Inoltre la scelta espositiva di utilizzare la fotografia, per certi versi il paradigma dell’oggettività, come filo conduttore della visita è didatticamente strategica e quella di dare netta predominanza all’esperienza di August Sander, visivamente suggestiva. Oltre alle opere ben note viene presentata la sua inesauribile produzione di portfolio tra cui “La galleria dei ritratti” o la serie poderosa “Uomini del XX secolo” iniziata fin dal 1910, interrotta durante il regime hitleriano e ripreso nel secondo dopoguerra.

Allemagne / Années 1920/Nouvelle Objectivité /August Sander, exhibition view at Centre Pompidou, Parigi 2022. © Centre Pompidou. Photo Bertrand Prévost

Questa impostazione aiuta a seguire la gradualità della trasformazione della società germanica fra le due guerre, nella pur rapida evoluzione e nel finale inabissamento, presentata qui nell’ineludibile specificità della sua identità sia culturale che nazionale dando in tal modo ragione dell’assenza nella mostra di riferimenti europei e della predominanza quasi totale di materiali tedeschi.

Non è solo un’esposizione di opere degne di nota, legate da comuni processi iconografici e culturali ma l’evidenziazione di come in ogni manifestazione creativa, dalla pittura al cinema e teatro, al design, alla fotografia, all’architettura e alla grafica convergessero metodi e principi ispirati al progresso in atto grazie alla frenetica innovazione tecnologica e alla ricerca scientifica applicata; il tutto necessario e complice all’obiettivo di costruire una fase storica che affermasse la modernità sociale, nonostante le laceranti differenze di classe sempre più marcate nel divenire della Repubblica di Weimar.

La modalità della “catalogazione” pervade la fotografia (punta estrema uno smisurato pannello che riunisce trecento diverse inquadrature di dirigibili, allora icona magnetica della scienza applicata e della modernità) ma anche un po’ tutti i settori riportandoci alle tante proposte del nostro contemporaneo che approfondiscono le potenzialità della rappresentazione compilativa.

L’opera di August Sander risulta determinante per spiegare la complessità e l’ambiguità della produzione di quel periodo; le raccolte di nitide fotografie di formato e inquadratura identiche che ritraggono le tipologie umane più svariate – da madri e figli, a operai delle miniere o militari o rappresentanti della classe dirigente – sono scaturite da un afflato per dimostrare la dignità e la specificità di ogni persona e ogni classe sociale; sono state scattate sia nel periodo magico ma poi ancora nella deriva nazista nella quale tuttavia, spinto dalla profonda sofferenza ideale, si mise a rischio nel ritrarre gli ebrei perseguitati che volevano lasciare qualche memoria di sé. Ne uscì indenne tranne che per la perdita del figlio militante comunista catturato e morto in carcere nel ’44. Anche Gernd Arntz nella serie “Dodici case del suo tempo” operò con questo senso civile per rappresentare le classi sociali secondo un insieme di codici facilmente identificabili per farne riconoscere la loro importanza nella società.

D’altronde che la temperie fosse su una china insidiosa lo rivela simbolicamente la foto di Sander, “Ritratto di Anton Räderscheidt” del 1926 della “Serie dei pittori”, la cui “oggettività” ricorda da un lato la surreale immobilità di una tela di Magritte ma anche una reale prefigurazione del deserto raggelante delle città tedesche negli anni immediatamente successivi con le strade svuotate, su una delle quali si staglia la figura del pittore.

Circa il ruolo svolto dal mondo dello spettacolo, le opere di Brecht, la nuova musica, il cinema si innestano nella visita con video, filmati – emozionante il film muto “La sinfonia della grande città” un caleidoscopico, frenetico ritratto di una giornata a Berlino di Walter Ruttmann -, colonne sonore, manifesti e scenografie.

Si potrebbe supporre che quest’analisi sulla “nuova oggettività” abbia guidato i curatori nello scavare nel profondo del nuovo zeitgeist germanico per coglierne anche i condizionamenti, gli aspetti critici di continuità con il passato non risolti e le tracce di possibili distorsioni o preconcetti ideologici che si sarebbero affermati nelle prassi devastanti degli anni successivi.

Come ad esempio l’aver rimarcato con lucidità, e talora impietosamente, le profonde radici dell’antisemitismo diffuso anche in quel periodo illuminato, tendenzialmente rimaste celate. Non può ad esempio non turbare l’antisemitismo dell’esasperazione descrittiva, quasi caricaturale, dei tratti somatici e delle attività economiche dei personaggi della popolazione ebraica di qualunque classe o la forzatura della mania di catalogazione nella fotografia o nella documentazione tipologica che talora assume il connotato di assoluta indifferenza al soggetto rappresentato, elemento botanico, oggetto o figura umana che fosse: dall’esigenza di cogliere i valori della singolarità dell’individuo per individuarne le specifiche valenze, alla mera elencazione asettica. Viene il dubbio che in questa quiete si rifugi la paura del caos e dell’ignoto, sulla quale avrà facile gioco il folle delirio hitleriano.

E così nella dovizia di messaggi più o meno ambigui da raccogliere val la pena citare qualche caso esemplare; “La garitta del guardiano” di Georg Scholz del 1925 dal Kunstpalast di Düsseldorf esposta a Mannheim nella storica esposizione dello stesso anno ci rimanda senza esitazione alle spiazzanti viste notturne di Edward Hopper; oppure l’opera che introduce alla visita, “Ritratto dello scrittore Max Herrmann-Neiße” di George Grosz del 1925 dalla Kunsthalle di Mannheim, che se da un lato precede l’inesorabile corporeità e le perfide deformità e posture dei ritratti di Lucien Freud rimanda tristemente anche a quegli orribili pamphlet nazisti, e non solo, di derisione della razza ebraica.

Nella sezione “les choses” colpisce un gruppo di inusuali e formidabili nature morte che danno la sensazione di trovarsi di fronte ad un unico artefice, tale la sostanziale assenza di segni stilistici distintivi. Ma gli autori sono invece tanti, come se l’adesione a un modello di rappresentazione fosse stata per loro una chiave di rassicurazione che garantisse l’appartenenza senza tuttavia impedire a ciascuno di loro di essere portatore di una propria proposta originale del soggetto e dell’inquadratura. Essi sono perlopiù ignoti e per questo val la pena disvelarne i nomi: Georg Scholz, Rudolf Dischinger, Franz Xaver Fuhr, Franz Lenk, Alexander Kanoldt, Bernhard Dörries, Hans Mertens, Hannah Höch, Erich Wegner, Albert Renger-Patzsch.

Un altro tema della mostra, tra i più dirompenti, è “transgressions” sulla lotta per l’affrancamento dalla costrizione di gender, solo marginalmente finora documentato, che risulta una ricostruzione molto articolata del processo di maturazione e diffusione delle istanze di liberazione sessuale profilando da un lato, l’avvio di tale processo con l’apertura del mondo del lavoro all’universo femminile a partire dalla guerra e poi sempre più affermatosi – il diritto di voto alle donne è del 1918 – e dall’altro il senso di imbarazzo crescente e la conseguente crescita dell’aggressività e del disprezzo maschile per paura di questa nuova figura minacciosa della donna. La maschilizzazione della donna lavoratrice nella inevitabile equiparazione al maschio lavoratore comincia a stravolgerne e ridefinire infatti ruoli e immagine. In un angolo un po’ appartato vediamo i ritratti e le foto dei primi transgender, i baci lesbici, i filmati para scientifici sulla femminilizzazione maschile, gli operai-schiavi o le parodie di figure maschili dalle maschere animalesche in cerca di prostitute, approfondimenti e provocazioni prodotti sia da artisti che da artiste.

Nella sezione “rationalité” viene descritto come, trasversalmente nelle diverse ricerche, prenda corpo la chimera del razionalismo; riferimento principale sono le istanze di rinnovamento che guidano il lavoro svolto dal Bauhaus sia a livello di design e produzione di elementi di arredo moderni che di programmi di edilizia pubblica; non poteva mancare la ricostruzione della cucina per gli alloggi popolari di Francoforte realizzata sul progetto di Margarete Schütte-Lihotzky prototipo dell’existenz minimum e della revisione del concetto di abitare.

Un tema contiguo al razionalismo affrontato nella sezione “standardisation” riguarda l’avvio della sperimentazione sulla creazione di un linguaggio visuale universale per poter comunicare qualsiasi cosa attraverso la simbologia: le elaborazioni degli “isotipi” quei pittogrammi stilizzati in grado di essere compresi da chiunque per rappresentare e descrivere fenomeni, quantità, indicazioni esplicative o di indirizzamento che sono penetrati nel nostro universo divulgativo, propagandistico e pubblicitario.

Non si tratta solo di una mostra d’arte ma è un invito ad un’immersione impegnativa, che è difficile da sintetizzare in un unico resoconto. Un’offerta di conoscenza su un’esperienza totale, strategica e cruciale per il passaggio al mondo nuovo, simulazione di come si sarebbe potuta evolvere la società; percorso che però per l’Europa fu brutalmente interrotto e mai ripreso con altrettanta lucidità e partecipazione. Un’esperienza che lascia il visitatore attento, turbato da un insieme di emozioni, a partire da quella estetica per i pregi artistici delle opere, ma anche da alcuni interrogativi sul perché tutto ciò allora sia rimasto confinato all’esperienza tedesca senza confrontarsi con le altre realtà europee e perché non sia mai stato finora raccontato con tale maturità.

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