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Corrado Cagli a Roma
Arte moderna
“L’eclettismo apparente dell’artista moderno dipende dall’aver scoperto la natura dei generi artistici. Come l’arte poetica ha i suoi generi (lirica, epica, idillica) così pittura e scultura hanno i propri che non sono paesaggio, figura e natura morta, ma sono l’astratto e il formale. Superato il dissidio tra i due generi (si può fare epica e lirica senza mutare anima) si riscatta l’astrattismo dalla polemica per trasportarlo nell’arte”. In questa riflessione così attuale e pluralista di Corrado Cagli (Ancona 1910- Roma 1976) ci sono tutta l’intelligenza e l’apertura mentale di un artista che ha fatto della libertà espressiva e della vocazione demiurgica, fabbrile e quasi magica nella sua capacità di trasformazione di stili e linguaggi, i punti di forza di un percorso creativo inesauribile, una vera e propria eruzione di forme sempre sorprendenti. Un artista per il quale tutto sembrava possibile e tanto grande quanto ingiustamente sottovalutato, anche perché inclassificabile e scomodo per le sue doti di inesausto anticipatore (senza la sua opera non si capirebbero neppure i percorsi di Guttuso, Afro, Capogrossi, Burri, Scialoja). E così solo un mecenate e filantropo a sua volta anticonformista, ecumenico e privo di preclusioni ideologiche come il Prof. Emmanuele F.M. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro-Internazionale, poteva pensare di offrire un sacrosanto risarcimento a questo vulcanico sperimentatore, con la grande mostra antologica intitolata “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, presentata fino al 6 gennaio nelle sale del Museo di Palazzo Cipolla, ben curata da Bruno Corà, in collaborazione con l’Archivio Cagli, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro-Internazionale e organizzata da Poema con il supporto di Comediarting.
Nonostante siano esposte circa 200 opere, fra quadri, disegni, sculture, bozzetti e costumi teatrali, arazzi e grafiche, domina la polifonia di soluzioni creative sempre diverse, mai monocordi, fin da quando, nel 1930, a soli vent’anni, da predestinato, Cagli diventa direttore artistico della fabbrica di ceramiche d’arte Rometti, a Umbertide, con un talento ribadito dalle maioliche presentate in mostra. E non si può dimenticare che solo tre anni più tardi, ancora giovanissimo, nel 1933, con l’articolo “Muri ai pittori” (pubblicato nel primo fascicolo di “Quadrante” di Pier Maria Bardi e Massimo Bontempelli) Cagli sosterrà che per “convogliare le forze della pittura contemporanea occorrono i muri, le pareti”, anticipando perfino l’odierna Street art. Si potrebbe quasi dire, con un po’ d’azzardo, che Cagli nasce prima come pittore murale che come pittore da cavalletto. E sono proprio l’audacia connaturata alla giovane età e l’osmosi da lui sentita in profondità con questa forma espressiva a favorire una presa di posizione teorica, confermata dalle opere di quegli anni, molto avanzata, quasi profetica, anche a paragone degli artisti di tutto il mondo che si cimentavano allora in contesti diversissimi di pittura murale, dal Messico postrivoluzionario, agli USA del New Deal, fino alla Germania e all’Unione Sovietica dei regimi totalitari, per citare solo i casi più emblematici. A tal proposito nel grande salone centrale di Palazzo Cipolla sono eccezionalmente riuniti alcuni dei pannelli con immagini monumentali, eppur mai retoriche, di Roma che costituivano il ciclo esposto e in parte censurato all’Esposizione Universale di Parigi del 1937.
Analizzando quel periodo Giuseppe Marchiori, nel 1959, aveva notato che “Cagli reagiva all’incubo della “grandezza”, alla retorica delle evocazioni dei fasti imperiali e guerrieri, nei termini della “favola”, come evasione in un mondo simbolico e come richiamo alle origini”, precisando più avanti che “Cagli aggiungeva alle doti inventive la coscienza critica e, per merito suo, il “distacco polemico” fu ragionato, dialetticamente imposto, con una efficacia che non poteva esser raggiunta dalla ribellione istintiva e romantica di Scipione e Mafai”. E, scriveva ancora Marchiori, “coi richiami al primordio, alle origini misteriose della città, cancellava l’interpretazione barocca e cattolica di Roma per risalire fuori della storia, per solo diritto di poesia, a una pittura di estrema semplicità arcaica, senza essere primitiva”. Nel complesso tutta la varietà e vastità della sua ricerca (a proposito della quale il saggista Raffaele Bedarida parlò di “schizofrenia stilistica”) sono documentate in mostra nelle fasi fondamentali: dal periodo del Gruppo dei Nuovi Pittori Romani fondato con Capogrossi e Cavalli a quello del Primordialismo, dalle prove “neometafisiche” (1946-1947) elaborate a New York agli studi sulla “Quarta dimensione” (1949), per poi passare ai “Motivi cellulari” (1949), alle “Impronte dirette e indirette” (1950), alle “Metamorfosi” (1957 – 1968), alle “Variazioni orfiche” (1957), all’ipnotica serie delle Carte (1958 – 1963), per arrivare alla metà degli anni Settanta con le “Mutazioni modulari”, senza dimenticare la bella sezione dedicata alla sua attività di scenografo e costumista teatrale.