Da sempre l’arte si tramanda, soprattutto all’interno della stessa famiglia. E di artisti che divengono tali per padri o fratelli più anziani ne è piena la storia. Molto spesso però arriva qualcuno che ad un certo punto si distingue enormemente, e la bottega poi si perde. E nella stessa bottega molto raramente – e solo per mancanza di documentazione – si fatica a capire a quale mano possa finir l’attribuzione. Come nel caso dei Pollaiolo, che fino a poco tempo fa – o forse ancora – mantennero misterioso chi realizzò la famosa dama. E quel meraviglioso profilo di giovani donne, tra le più affascinanti del Rinascimento, sembrano per il momento avere come autore un solo unico nome: Piero. Meno poliedrico del fratello, meno drammatico e incisivo, ma con influenze fiamminghe e tocchi leggeri, riscontrabili nella ricerca di effetti preziosi, nella poetica dissolvenza di paesaggi vibranti e nella formidabile imitazione di tessuti e broccati.
Mentre Antonio, più anziano di dieci anni e più geniale, come sosteneva Vasari, dovrebbe rimanere scultore e orefice, più che pittore. Bravi entrambi comunque, ma uno dei due solo può dirsi maestro nella doppia dimensione. E come Dante sosteneva per fortuna ”’l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma nelle singular persone”. Anche se gli artisti di oggi non portano avanti le botteghe, soprattutto perché, come Maurizio Cattelan ben dice, all’artista contemporaneo non serve nessuno studio: bastano le idee e aver la forza di realizzarle. Così la tecnica non serve e il know how neppure, e si ritrovano figli che fanno altro: qualcuno vende vino, qualcun altro è un bravissimo movie maker. E ci si ricorda meno dei Crivelli, dei Vivarini, dei Campi, dei Baschenis o dei Bellini, e di un tutto mondo infinito che brevemente vediamo.
Carlo (Crivelli) fu figlio del pittore Iachobus del quale nessuna opera sembra essere pervenuta; Vittore invece era il fratello, anch’egli pittore. Ma se del padre non sappiamo dire, possiamo riscontrare che Vittore non raggiunse mai il grande linguaggio di Carlo, rimandando così il fratello secondario. Almeno così ce lo tramandano l’arte e la storia, sempre fino a prova contraria. E se di Carlo è raccontato il suo essere mai quieto né pago, quelle caratteristiche – e alcune altre più tecniche – nel fratello non si trovano. Di Vivarini ce sono tre di noti pittori, originari di Murano, e anche per questo discendenti da famosi vetrai attivi e molto bravi: Antonio, il fratello minore Bartolomeo, e suo figlio Alvise. Antonio collaborò con l’Alemagna, marito della sorella, fermandosi su stili tardogotici. Bartolomeo fece un passo avanti legandosi ai modi decisi del Mantegna, ma spetta forse all’Alvise l’introduzione dei tratti più morbidi di Antonello da Messina e l’inizio di una mitica rivoluzione in laguna.
Nella pianura padana i Campi sono infiniti, e lo sono anche i pittori. Capostipite fu Galeazzo Campi, padre di Gulio, di Antonio e di Vincenzo. Ma in questo caso il padre sembra meno importante nella ricerca e a lui va il solo merito di aver acceso la miccia. Giulio, il primogenito, ebbe maggior talento e fece un viaggio mantovano che gli permise di entrare in contatto con un nuovo stile dalle grandi conseguenze sulla sua produzione. Ciò portò ad una grande attenzione nei modelli di Raffaello, tramite l’allievo prediletto Giulio Romano, discostandosi dall’iniziale esempio e dalla sua prima ispirazione. A quel punto Giulio influenzò i fratelli che seguirono comunque stili e strade autonome: Antonio più ritrattista, Vincenzo più legato, forse, a certe nature morte. I Baschenis sono una miriade e si ritrovano già a partire dalla metà del millequattrocento, pronti a tramandare di padre in figlio il loro abile mestiere. Maestri dell’affresco in generale e bravi a raccontare l’arte in sequenza, si dividono in due dinastie di pittori: quella dei Lanfranco (il primo fu Antonio) e quella dei Cristoforo. Da qui seguirono una sfilza di nomi che non è facile ricordare: Angelo, Giovanni e Battista, da un ramo; Dionisio, Pietro, Simone (primo e secondo), Filippo, vari Cristoforo e l’ultimo arrivato Evaristo, che è forse il più famoso e senz’altro diverso, poiché si dedicò alla creazione ad olio di nature morte con strumenti musicali precisi e incredibilmente ben disposti. Poteva forse esserci qualcosa di più lontano dall’affresco progressivo di storie religiose? Non mi pare.
I Bellini invece sono tre e tutti molto ammirati. Jacopo, Gentile, e il divin Giovanni. Jacopo fu il pittore che riuscì ad andare a Firenze e si impressionò per la pittura di Gentile da Fabriano. Di quest’ultimo fu allievo fidato al punto tale da chiamar suo figlio con lo stesso identico nome. Gentile, il figlio in questione, divenne un grande ritrattista a Venezia e realizzò storie sui noti teleri antesignani di quel vedutismo che avrà grande successo nella città lagunare. Giovanni fu forse il più grande artista del suo tempo e nessun altro ci regalò mai tanta delicatezza e quelle tinte di verde e blu leggero, o quella luce soffusa e fioca che abbraccia e rende poesia ogni cosa. È poi qui bene ricordare che nella bottega e in famiglia entrò come cognato niente meno che Andrea Mantegna. Per gli Zuccari, i Crespi, i Luini o i Gentileschi sfortunatamente non c’è tempo adesso, come per tanti altri non elencati che sappiamo bene esistono. Ma le botteghe oggi continuano altrove, ovvero nelle gallerie, che si tramandano di generazione in generazione il parco artisti e il pacchetto clienti. Bravi gli eredi a continuare e pure fortunati ad avere un’apripista: un inevitabile confronto è certamente in vista.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle.
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