Che barba un racconto sulla barba, ma qualcuno ci ha fatto addirittura un libro e una mostra. Che vien da segnarsi a croce la fronte ma può anche essere un ottimo spunto, almeno per un racconto. Soprattutto per chi, quando nell’arte sente parlar di barba, vola con la mente al Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove sta il ritratto di Uomo barbuto e vecchio del Tintoretto. Proprio lì, nella Sala Bordone, un anziano signore di nome Reger, protagonista del romanzo Antichi Maestri di Thomas Bernard, si reca ripetutamente per guardare in solitudine quel celebre ritratto, dove l’anziano canuto ci scruta di profilo con fare interrogativo o sospettoso, e con un po’ di malinconia dovuta forse alla scarsezza dei capelli rimastigli in testa rispetto alla densità della sua invidiabile guancia. Del resto anche Tintoretto non sorrideva spesso, ma dio mi guardi dal risolvere l’enigma e procediamo con altri figure barbute che grazie all’arte ci sono pervenute. I Santi ovviamente avevano parecchia barba che in qualche modo indicava saggezza e per illustrare subito la questione porto ad esempio il Lotto, con la sua pala, a me vicino, di San Bernardino. I Santi ritratti qui sono ben quattro, disposti a due coppie ai lati del trono: Bernardino è glabro ma gli altri Santi non fanno sconti. Giovanni Battista ha una barba lunga, riccioluta e appuntita, che verrebbe da definire merliniana; Antonio Abate opta per una media lunghezza, liscia e rossastra, mentre San Giuseppe, accigliato e con i piedi sovrapposti, ha la barba corta e tonda che sembra di lana bianca.
Ma non cerchiamo il pelo nell’uovo e continuiamo con quanto abbiamo. Intercettato da poco e per fortuna di ritorno a Torino è Il ritratto di Gentiluomo con berretto nero del Tiziano, che fa scendere dall’orecchio destro una barba sparuta lungo la mascella e che sapientemente si addensa sotto la bocca. Di Leonardo da Vinci invece non ho mai capito, complice la sanguigna che ha utilizzato, dove finiscano i capelli lunghi e dove inizi il resto nel suo famoso autoritratto. Di certo siamo nel pieno della sua vecchiaia e di sé non molto più si curava.
Saettosa è la barba dipinta dal Maestro del Castello della Manta, che scende dal mento di un Giulio Cesare troneggiante nella Sala Baronale, reggendo il globo, mentre gli eroi ebrei Giosuè o Giuda Maccabeo hanno barbe a triangolo e Re David un aranciato cespuglio. Altre quattro barbe a confronto si trovano con Masaccio nel Trittico di San Giovenale, dove nelle tavole laterali alla Maestà venerata da angeli inginocchiati stanno a sinistra Bartolomeo e Biagio, a destra Giovenale e Antonio Abate. Mantenendo l’ordine si hanno rispettivamente: una barba da gorilla, una degna del creatore, una corta molto fitta e una bianca che pende fino al busto.
Sul filo del rasoio non vuol stare neppure Giovan Battista Moroni che ci offre un ritratto di Paolo Cedrelli esposto alla Carrara con l’aggiunta di una barba nebbiosa, di affaticata fattura, ben distante da quella pirandelliana del suo Vecchio in poltrona, o da quella di Cosimo I de Medici ritratto da Agnolo Bronzino, che sembra aver lasciato apposta un tondo vuoto sotto le labbra per affiggerci un’altra medaglia. E val per lui di certo il detto: chi barba non ha e barba tocca, si merita uno schiaffo sulla bocca. Ma schiviamo il colpo e non gettiamo la spugna, che una barba diversa (opera di Van Dyck) si trova a Londra: è quella che contorna il viso elegante e ben eseguito dell’amico dell’artista François Langlois, che è vestito da savoiardo e impugna una specie di zampogna.
La sua barba è leggera e ben tenuta, come quella di chi sapeva di essere in posa. Johnnydeppiana – che in questo periodo è tanto di cronaca – potrebbe essere la barba che tende a sfoggiare il grande Rubens nel suo autoritratto, molto sottile e fine, che al Kunsthistorisches ci permette di ritornare. E approfitto allora per concludere, salvandomi al pelo dall’essere un invincibile tedio, tornando al Bernhard scrittore: “perché quello che studiamo minuziosamente perde valore ai nostri occhi, disse Reger. Dunque dovremmo guardarci in generale dallo studiare minuziosamente alcunché. Eppure non possiamo fare altro che studiare minuziosamente ogni cosa, questa è la nostra disgrazia…”,
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle.
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