Anni fa un amico cinefilo mi rivelò che spesso i registi cinematografici sono ossessionati da svariate cose che costantemente inseriscono nelle loro pellicole. David Lynch, ad esempio, ha paura del fuoco e non manca di citarlo, addirittura intitolando Fuoco cammina con me un famoso lungometraggio che funge da prequel alla morte di Laura Palmer. Pedro Almodovar adora i libri e spesso li mette in evidenza, mentre Peter Greenaway ha paura di morire affogato e risulta tormentato da alcuni numeri ricorrenti, come il 92 delle valigie di Tulse Luper. Così mi sono chiesto quali siano le ossessioni degli artisti e nel corso del tempo ho tenuto un elenco. Vado in ordine di note e ritrovo la prospettiva melozziana dal sotto in su come prerogativa di Melozzo da Forlì. Il rosso è il colore tipico di Tiziano mentre un certo tipo di rosa è associato a Gianbattista Tiepolo.
Ma del Tiepolo ho scoperto un universo che mi fa pensare che più un autore sia prolifico, più sembri aver tormento. E insieme al volto rotondo più che ovale delle figure, ho riscontrato nelle sue donne alcune ricorrenti caratteristiche: la capigliature bionda o fulva, i seni rotondi, distanti e divergenti, gli occhi allungati verso le tempie e appena sporgenti, una carnagione rosata, la fronte stretta e bombata, il torso forte ed elastico, il gesto pacato, sicuro, impavido. Questa era la donna che piaceva al Tiepolo. E poi in lui c’era il segreto dei serpenti ma preferisco passare oltre e non aggiungere troppi argomenti. La luce di taglio o il buio – meglio – era l’amore del Caravaggio, insieme ai santi dai piedi sporchi e la voglia di sconvolgere i presenti. Il profil perdu compare in tanti dipinti di Ingres, mentre Luca Giordano odiava perdere tempo e nell’eseguire fu così svelto da esser soprannominato “lucafapresto”.
Lo Zurbarán sceglieva spesso una diagonale impostazione per la sua composizione, mentre Filippo Lippi, monaco pentito, ebbe nelle donne l’assillo della moglie. La Lippina – così fu chiamata la sua figura femminile – non era nient’altro che il ritratto della monaca che sedusse e Lucrezia Buti più di una santa divenne. Sandro Botticelli era un esperto di fiori e si conta che nella Primavera degli Uffizi compaiano più di cinquecento specie vegetali di cui almeno 138 fiorite, almeno così si dice.
Anche Claude Monet amava i giardini in fiore tanto da coltivare le sue ninfee in un bellissimo spazio a Giverny, con il suo suggestivo specchio d’acqua e il ponte giapponese. Insieme ai lillà, l’iride, le ortensie, i non ti scordar di me e le violette. Cézanne ovviamente adorava le mele e saliva sulla collina dal suo atelier per ammirare il monte Sainte Victoire. Taddeo Zuccari preferiva dar vita alle sue figure con un tratto pastoso, nervoso e svelto, mentre Joan Mirò si emozionava per lo scorrere del tempo. A Morandi risale la passione calma per i vasi e le bottiglie, mentre Paolo Uccello si agitava con le lance e le battaglie. Brancusi aveva un debole per le teste dormienti e per il colore blu l’aveva Kandinskij. Gentile da Fabriano amava il lusso e lo ostentava nei suoi lavori e anche Luca Signorelli visse splendidamente e si dilettò del vestir bene. Del Signorelli ci si ricorda anche per i libri aperti poggiati a terra, di Domenico Veneziano per i colori chiarissimi e impregnati di luce, mentre di Rembrandt per l’incredibile dedizione per la sua stessa immagine. E pure Frida Kahlo, con cinquanta autoritratti, fece più o meno la stessa fine. E se Tiziano non aspettava altro che tramutare la sua emozione in colore, Marthe de Méligny non aveva tregua nemmeno in bagno che Pierre Bonnard, suo marito, la voleva render quadro. Artemisia Gentileschi risulta ossessionata dagli uomini dopo che venne violata in gioventù da un pittore amico del padre e fu così combattiva da difendersi al processo da sola e strenuamente. Lo Scarsellino aveva una bruttissima tosse che non curava e morì il 28 ottobre del 1620 nella bottega di un barbiere, ancora insaponato, soffocato dalla sua stessa bronchite. Bergognone, che si ispirava al Foppa e ai fiamminghi, era sensibile ai colori madreperlacei, mentre nel Moretto erano famose le rose sul gradino o l’albero in controluce. L’azzurro era tipico della tavolozza del Sassoferrato e nelle sue Madonne in preghiera domina quella magnifica tintura. Carlo Crivelli amava la verdura e la frutta e fra le tante varianti esistenti preferiva il cetriolo e la pesca, come l’abate Lanzi ricorda. E a tal proposito anche Fra’ Bartolomeo era ghiotto di frutta e secondo Vasari (e certi miti) morì dopo un’indigestione di fichi.
E ultimamente, dove ci si rivolge? Gilberto Zorio segue e crea le stelle, Giulio Paolini il teatro e le tele riverse. Alighiero Boetti si riconosce nei giochi di parole degli arazzetti, mentre Anselmo ama le bussole e Pistoletto gli specchi. Lucio Fontana si associa ovviamente ai tagli e John Baldessari ai tondi sui volti. Jonathan Monk parte dall’idea di altri artisti volutamente, mentre Paul Gees passa il tempo a mettere in equilibrio le sue infinite pietre. Ma anche Donald Judd aveva le sue fisime. E quando un cronista un giorno gli disse: “Mr. Judd il suo lavoro é molto semplice, quattro normali cubi…” lui immediatamente rispose: “cinque o tre, non mi piacciono i numeri pari”. Less is more, diceva appunto il grande Mies van der Rohe…
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle.
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