In cerca della luce giusta. Quella del Mediterraneo che Henri Matisse sceglie per sempre, come Monet si lascia conquistare da quella del nord della Francia. È il tesoro inseguito per tutta la vita, il volano dei suoi numerosi viaggi e della forza rivoluzionaria dei suoi colori. Quella che riporta alla fine di ogni spostamento sulle tele nel suo studio. Viaggi reali e viaggi immaginari, cercando senza sosta l’armonia tra forma e colore. Nel visitare l’ampia retrospettiva che ripercorre tutto l’arco della sua produzione alla Fondazione Beyeler a Basilea, Invito al viaggio (Invitation to the voyage) – il titolo è tratto da una poesia di Charles Baudelaire – che si sviluppa in ordine cronologico seguendo il filo dei suoi spostamenti in cui si diventa suoi compagni di avventura. E si scopre che l’artista della cosiddetta Joie de vivre si può ancora guardare con occhi nuovi, è intelligente rileggere la sua arte da un versante che ci fa entrare in contatto con il suo bisogno di Nuovi Mondi, che siano sul mappamondo o all’interno della sua memoria. Una vita, quindi, la sua, articolata su più geografie.
Nato nel nord della Francia, trova la “sua prima luce ideale” al sud, da Collioure a Nizza. Per poi proseguire in altri luoghi del Mediterraneo: Italia, Spagna e Nord Africa. E sempre per il demone della ricerca vola negli Stati Uniti, nei mari del Sud, in Russia e a Thaiti. Dei suoi viaggi ci sono tracce nei documenti raccolti nei suoi studi e nelle sue case, come le sue cartoline, ma questa esposizione ci invita a individuarle nei suoi quadri: dagli still life ai ritratti, dagli interni ai paesaggi. Non è difficile: in molte opere si stagliano oggetti, manufatti come stoffe, stoviglie che sono parte della vita dei Paesi dove ha fatto tappa come nelle opere l’Atelier rose, o Armonie rouge. Ma ci sono anche le tracce simboliche della sua passione esistenziale: «La finestra aperta è una dimensione simbolica: un occhio sul mondo, che può essere intesa come un invito al viaggio», racconta il curatore della Fondazione Beyeler, Raphael Bouvier. Nei dipinti Intèrieure à Collioure (1905) o La fenêtre ouverte (1905) questa finestra fa intuire un possibile altrove, quello che vogliamo anche noi che guardiamo: un luogo dei sogni da raggiungere? Matisse attraversa infatti le correnti pittoriche che incontra nel suo percorso artistico: si cimenta nei paesaggi secondo la tradizione fiamminga, dopo aver amato le opere di Van Gogh. Rivoluziona il suo stile, influenzato successivamente anche dalla pittura giapponese e dalla tecnica del pointillisme che lo aiuta a definire la sua poetica attraverso il colore, traducendone fino alla fine il pensiero creativo.
Liberando i colori da un ruolo e semplificando le forme, genera la nuova arte con nuova libertà e luminosità. Quella di Fauves in cui i colori riscrivono gli oggetti e le scene di vita abbattendo qualsiasi prospettiva. Realizzando pura astrazione, crea un’illusione di realtà con oggetti, personaggi, paesaggi e natura. Spesso le grandi pennellate ricreano le forme diventando anche sculture. In alcune ci sono silenzi che ci permettono di immaginare, forse gli stessi mondi che lui stesso voleva evocare; come nell’opera Luxe, calme et voluptè, che segna il suo passaggio al Fauvismo anticipando la sua opera manifesto Le bonheur de vivre, entrambe in mostra. In quest’ultimo si respirano le atmosfere del Sud della Francia, che aveva vissuto a Collioure, un villaggio di pescatori dove aveva frequentato André Derain, altro pittore del movimento delle Bestie (con questo termine Fauves venne nominato il gruppo di avanguardia al Salon d’Automne attivo tra il 1905 e il 1910, definito così da Louis Vaucelles che definisce la sala dove hanno esposto Matisse gli altri pittori come Maurice de Vlaminck e Andrè Derain, la cage aux fauves, ossia una gabbia di belve per la forza nei colori usati).
Si apre poi il capitolo su Nord Africa, Algeria e cultura islamica: arte e architettura, che segnano particolarmente i suoi lavori. Quell’orientalismo che ritroveremo in moltissime sue opere nelle stoffe, negli oggetti, negli arredi delle stanze. La luce che segnerà più di tutto il suo lavoro sarà la mellow light, la “luce dolce” che Matisse troverà in Marocco nel 1912, un luogo dove molti artisti a inizio secolo erano andati a cercare una luce simile a quella del sud della Francia, ma più intensa. “Che luce dolce”, scrive al pittore Henri Manguin, «non come quella della Cote D’Azur, e la vegetazione è lussureggiante come la Normandia, ma con che potenza decorativa!». Non a caso a Tangeri, sviluppa quadri dedicati alla natura, nella sua rappresentazione più astratta come Les Acanthes (Paysage marocain). Inoltre scrive, l’artista, la produzione di quel periodo lo aiuta a superare il Fauvismo. L’arte e l’architettura islamica con il loro carico di ornamenti significano lo stacco definitivo dal fauvismo (Tangier), e finalmente, scrive, «attraverso di esse le mie sensazioni hanno preso forma».
I suoi spostamenti comunque sedimentavano a lungo per spostarsi sui quadri. Al suo ritorno in Francia le impressioni di quel mondo si manifestano in Nu Bleu (Souvenir de Biskra): una donna nuda sdraiata in mezzo a palme lussureggianti (la figura arriva da Nu Couche I (Aurore) il risultato di una riflessione sulla relazione tra pittura e scultura. Molti oggetti acquistati in Algeria rendono potente il quadro Les Tapis rouge, tappeti, tessuti e frutti su una tavola in uno spazio immaginario. Nella ricchissima mostra alla Fondazione Beyeler il percorso si conclude con l’ultima sua ricerca: i Papiers decupage, molti della collezione della Fondazione.
«Impugnare il pennello per la prima volta fu come entrare in un paradiso», scrive Matisse, in Notes du peintre. E così anche da malato negli ultimi anni non ci rinuncia si dedica ai Papiers decupage. Non rinuncia, ma trasforma il suo fare arte perché come diceva Schoenberg (e vale per tutti i grandi) per lui creare era necessario: «Sono costretto ad andare in questa direzione non perché la mia invenzione o la mia tecnica siano inadeguate (…), ma perché sto obbedendo a una costrizione interiore più forte di qualsiasi educazione, sto obbedendo al processo formativo che essendo quello, naturale per me è più forte della mia educazione artistica». Ricercando la massima armonia tra forma e colore. E rivelando che il suo modo di vivere l’arte è a larghissimo raggio, come lo dimostrano i Papiers decuplo, che si possono considerare sintesi tra disegno-colore-scultura.
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