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El Greco, dall’Ermitage a Roma
Arte moderna
Fino al 15 marzo 2020, presso gli spazi di Palazzo Rhinoceros, sede della Fondazione Alda Fendi–Esperimenti, sarà esposta un’opera del pittore simbolo del Siglo de Oro, Domìnikos Theotokòpoulos detto El Greco. Si tratta di una magistrale versione de I santi Pietro e Paolo conservata al Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo. È questo il secondo appuntamento – dopo il grande successo di pubblico registrato lo scorso anno dall’esposizione dell’Adolescente di Michelangelo – di un accordo di collaborazione triennale tra la Fondazione e il museo pietroburghese, nato dal desiderio di coltivare rapporti di scambio culturale tra l’Italia e la Russia. La mostra è organizzata da Il Cigno GG Edizioni in collaborazione con Ermitage Italia e Villaggio Globale International, e dialoga idealmente con la grande retrospettiva dedicata in questi mesi al pittore cretese dal Grand Palais di Parigi.
Un pittore non facile, El Greco. Lo si ama o lo si odia, e spesso lo si fraintende. Nato nel 1541 a Heraklion (dal 1669 al 1889, dopo la conquista ottomana, denominata Candia) nell’isola di Creta allora sotto il dominio della Serenissima, fu all’inizio della sua carriera un pittore di icone bizantino-latine nell’ambito della cosiddetta “Scuola cretese” nata, dopo la caduta di Costantinopoli, per soddisfare la richiesta veneziana ed europea di queste pitture devozionali. Nel 1567, egli lascia la moglie e la bottega e si trasferisce a Venezia, dove studia Bassano, Tiziano, Tintoretto, Veronese. Dopo una permanenza a Roma, nel 1577 arriva a Toledo, città dove vivrà fino alla sua morte nel 1614. In passato liquidata come espressione tipica di una tormentosa religiosità controriformata dal tono macabro e spagnolesco, la febbrile e allucinata pittura di questo artista – che raggiunge l’apice della sua carriera alla fine del XVI secolo – è lontana dal classicismo dei Carracci e dal naturalismo di Caravaggio, e rappresenta una “terza via” irregolare al racconto sacro. Dalla tradizione figurativa post-bizantina della sua isola, fiorita sotto il controllo di Venezia e già toccata nel XV e XVI secolo da Bellini, Tiziano e Veronese, El Greco trae alcuni elementi, come le proporzioni allungate delle figure umane e l’eclettismo. Ma, soprattutto, coglie l’attitudine a una sofisticata intellettualizzazione del dato reale, che si unirà ad alcuni accenti del secondo Cinquecento italiano in modo sorprendente e peculiare.
Le sue composizioni riproducono uno spazio onirico e incandescente, che ha poco a che fare con quello fisico evocato dalle convenzioni prospettiche tradizionali e che il manierismo veneziano era andato sgretolando; il suo occhio esaspera i bagliori teatrali di Tintoretto e lo sfaldamento materico dell’ultimo Tiziano, aprendo così a un “espressionismo” modernissimo che, non a caso, lo fece riscoprire da artisti come Manet e Cézanne, da Picasso, Modigliani, Soutine, Chagall, Schiele, Beckmann. Così infuocate le propaggini della sua visione, da estendersi, senza dubbio, anche agli Espressionisti e ai Surrealisti, a De Vlaminck, i Fauves, Kokoschka, fino a Bacon e al contemporaneo Gérard Garouste.
L’opera scelta per essere esposta a Palazzo Rhinoceros a Roma fu realizzata, probabilmente, a Toledo tra il 1587 e il 1592. Raffigura gli apostoli Pietro e Paolo (nelle intenzioni degli organizzatori della mostra, un omaggio alla città di Roma, di cui questi sono i santi patroni), che insieme rappresentano l’unione delle radici ebraiche e gentili della Chiesa. Gli attributi iconografici tradizionali dei santi sono accennati quasi en passant: Pietro reca nella mano sinistra una chiave d’argento, Paolo poggia la mano su un libro aperto, simbolo delle sue lettere alle prime comunità cristiane. Magistrale e altamente evocativo, vero nucleo significativo dell’intera composizione, la dinamica delle mani che sporgono dai voluminosi mantelli intrecciandosi, alternandosi, dando luogo a una ritmata dialettica, come se dialogassero tra loro mentre i due volgono il loro sguardo riflessivo e penetrante nella stessa direzione. Sommessa e severa la scala cromatica, rialzata dal tono purpureo del manto di Paolo, e che pure dà luogo ad ampi panneggi quasi cangianti; i volti dei due protagonisti, dalle gote scavate, riprendono la loro consueta iconografia (barbuto e incanutito l’uno, magro e affilato l’altro) ma, come avverrà con i santi di Zurbaràn e Ribera, hanno un che di scarmigliato, selvatico, veemente. Un dipinto, questo visibile a Roma, che consente di assaporare alcuni caratteri chiave della pittura di un pittore straordinario e sempre sorprendente.
www.fondazionealdafendi-esperimenti.it