Categorie: Arte moderna

IO SONO MIA: la discriminazione di genere nell’arte della Belle Époque

di - 8 Marzo 2023

L’assenza delle donne nell’arte affonda in tempi lontanissimi, a causa della rigida ripartizione dei ruoli che i due generi hanno storicamente esercitato all’interno della famiglia e nelle società. E se le pittrici e scultrici documentate nei libri di storia dell’arte sono delle eccezioni, immaginate quanto sia stata più dura acquisire visibilità storica per le affichistes, quelle grafiche illustratrici che produssero manifesti pubblicitari, poiché impegnate in un genere considerato arte minore fino a pochi anni fa. Conseguenza della mancata attenzione critica verso le poche artiste che operarono nella produzione di manifesti nel periodo della Belle Époque (ca.1871-1914), è che della maggior parte di loro non abbiamo documentazione né del loro lavoro né, tantomeno, della loro biografia.

In Europa tra la fine del 1800 e i primi decenni del 1900, sulla scia dell’industrializzazione che aveva imposto il nuovo modello produttivo concentrato nelle aree urbane delle grandi città, la borghesia produttiva vide nei manifesti pubblicitari il medium ideale attraverso il quale convincere i consumatori ad acquistare i loro prodotti. Oltre alle biciclette e alle macchine per cucire i manifesti pubblicizzavano la moda nei primi grandi magazzini, bevande alcoliche, spettacoli, uscite di libri, trasporti, turismo e altro.

Contemporaneamente, in Europa avanzava l’idea politica del Socialismo assieme al diffondersi dei movimenti culturali che rivendicavano nuovi diritti per le donne, primo fra tutti il diritto al voto perseguito dalle cosiddette “suffragette”. Soprattutto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti si affacciava l’idea di una donna nuova con un ruolo sociale più attivo nella comunità. Una donna non più relegata nel focolare domestico, ma in grado di mettere in discussione l’atavico dominio del potere maschilista anche nel settore creativo delle arti. Nonostante Parigi fosse forse la città più aperta del tempo, predisposta più di altre ad accogliere le istanze della modernità, non dimentichiamo, nel contempo, che alle donne francesi fu impedito di iscriversi all’autorevole École des Beaux-Arts di Parigi fino al 1897, per cui le aspiranti artiste dovettero affidare la loro formazione a scuole artistiche private meno prestigiose.

A titolo di risarcimento morale e culturale, e in rappresentanza di tutte quelle affichistes ignorate dalla critica e rimaste perciò anonime, voglio qui presentarne un paio che col loro esempio hanno contribuito a diffondere la lunga e faticosa lotta per l’emancipazione della donna: Clémentine Hélène Dufau ed Ethel Reed.

La prima è un’artista francese che ha seguito consapevolmente un percorso politico-culturale, razionale e strutturato; la seconda, un’illustratrice americana, aveva una personalità più avventurosa e disinvolta, esprimendo un femminismo individualista ed estremo, di cui ha pagato le conseguenze sulla sua pelle: una sorta di “artista maledetta”, ma proprio per questo narrativamente più interessante. E se credete che il famoso slogan “Io sono mia” lo hanno inventato le femministe italiane degli anni Settanta, ebbene vi sbagliate: è stata proprio Ethel Reed a usarlo per prima.

Clémentine Hélène Dufau (1869-1937), nata in una famiglia benestante poté giovarsi delle lezioni dell’illustre maestro accademico William Bouguereau. Nel 1897 acquisì lo status di artista professionista, e due anni dopo la giornalista suffragetta Marguerite Durand le commissionò un’affiche per il giornale femminista “La Fronde”. Nel 1903 espose le sue opere pittoriche al Salon d’Automne, ma forse la Dufau mostrò maggior talento come grafica e illustratrice, realizzando diversi manifesti.

Clémentine-Hélène Dufau “la Fronde” 1898, lito cm 99 x 137, stampa Charle Verneau Affiches

Nell’affiche “La Fronde”, il tema femminista si intreccia con quello sociale, suscitando echi vicini ai contenuti politici dell’artista svizzero Theophile Steinlen, attivo a Parigi ai tempi dell’Art Nouveau. La figura centrale della composizione è una donna elegante in verde che tiene la mano a una povera popolana e la invita a guardare verso l’orizzonte, metafora dell’alleanza tra Cultura e Popolo per sperare in futuro più giusto socialmente, ma che includa anche il riscatto dalla sottomessa condizione femminile. La donna che guarda verso lo spettatore potrebbe essere la personificazione dell’Arte o un autoritratto della stessa Dufau che tiene una cartella di disegni.

Clémentine-Hélène Dufau “Bal des Increvables au Casino de Paris”1896, lito cm 137,6 x 97,5 cm, Musée de la Publicité (Parigi); “Pelote Basque”, ca. 1903, lito cm 148 x 108, Parigi, Musée de la publicité

Ethel Reed (1874-1912), “La bella signora del poster”, è stata una grafica illustratrice americana, disegnò oltre 25 poster soprattutto da giovane tra il 1895-96, emergendo per il suo indubbio talento nell’ambiente editoriale di Boston dominato dagli artisti maschi. Dopo la pubblicazione del suo primo poster per il Boston Sunday Herald ricevette numerose commesse e in breve non solo diventò un’artista di punta nella comunità creativa, ma anche un personaggio pubblico glamour, complice la sua attrattiva bellezza.

È una delle pochissime designer che ha avuto una rivalutazione critica negli ultimi anni, soprattutto grazie allo studioso William S. Peterson che nel 2013 pubblicò il libro “The Beautiful Poster Lady: A Life of Ethel Reed” che, facendo un’intensa ricerca d’archivio, l’ha fatta emergere dall’oblio in cui era rimasta sepolta da oltre un secolo. Crebbe così l’interesse dell’ambiente culturale americano nei suoi confronti, e di conseguenza i suoi lavori furono infine esposti in importanti musei, tra cui nel 2016 al Metropolitan Museum e al Museum of Modern Art di New York.

Mostra Ethel Reed al Posterhouse di New York, 2022, courtesy Posterhouse, Photo by Stephanie Powell

Questo rinnovato interesse delle istituzioni culturali per il manifesto artistico portò all’apertura nel 2019 a New York City di Posterhouse, il primo museo pubblico americano dedicato esclusivamente ai poster. In questa nuova sede la curatrice del Museo Angelina Lippert dedicò una mostra a Ethel Reed, dal 25 febbraio al 21 agosto 2022, col contributo fondamentale del collezionista di poster Thomas G. Boss.

Tali riconoscimenti postumi risarciscono l’opera artistica della Reed, ma rappresentano anche una compensazione morale per la vita particolarmente irrequieta e tormentata della donna, artista indipendente, anticonformista e femminista radicale, fortemente in anticipo coi tempi. Ethel mal sopportava le convenzioni borghesi che ingabbiavano la sua natura ribelle e creativa, e a circa vent’anni ruppe il fidanzamento con l’artista di buona famiglia Philip Leslie Hale.

Quattro poster di Ethel Reed

Nonostante il successo ottenuto in campo grafico lavorando per importanti editori di Boston, nel maggio 1896 volle trasferirsi in Europa, forse subendo il fascino della modernità che al tempo esprimevano città come Parigi e Londra. A Londra ebbe sporadiche commissioni, tra cui illustrazioni per “The Yellow Book”, un magazine britannico cui lavorò anche l’affermato grafico Aubrey Beardsley. In realtà non avendo saldi riferimenti nel Vecchio Continente, rimase ai margini dell’ambiente lavorativo, con conseguente crollo delle sue entrate. Quando un suo ex amante si offrì di aiutarla economicamente, Ethel gli scrisse: “Non devo niente a nessuno, né fedeltà né spiegazioni, sono di mia proprietà”.

Durante la sua sfortunata trasferta in Europa ebbe due figli da amanti diversi, sposò l’inglese Arthur Warwick da cui si separò già nel viaggio di nozze. Morì a Londra a soli 38 anni, a causa di una overdose di sonniferi e alcool, poiché soffriva di insonnia e depressione.

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