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Ligabue e Pende, tra istinto e tormento: la mostra evento a Fermo
Arte moderna
A Fermo è di nuovo il tempo delle mostre. Con la nuova, doppia esposizione dedicata ad Antonio Ligabue e Giuseppe Pende: due grandi pittori del Novecento celebrati nella loro complessità, fatta di genialità, tormento, tra realtà e sogno. Attraverso oltre 80 opere che permettono di approfondire nei dettagli la conoscenza dei due artisti. Con Spiriti selvaggi. Antonio Ligabue e l’eterna caccia, a cura di Vittorio Sgarbi e Marzio Dall’Acqua e Giuseppe Pende. Realtà, sogno e visione dello stesso curatore – nonché sottosegretario alla cultura – torna quindi a Palazzo dei Priori di Fermo Il tempo delle mostre: «Un momento culturale altissimo per la città», come evidenziato dal Sindaco Paolo Calcinaro, spiegando di attendersi «Grandissimi numeri da visitatori nazionali e regionali», per l’occasione.
In effetti si tratta a tutti gli effetti di un evento culturale di forte impatto e rilevanza, con un’iniziativa artistica di particolare bellezza e fascino. Partendo dalla mostra di Ligabue, che propone oltre 40 opere, di cui due inedite e il quadro immagine della mostra che non veniva esposto dal 2015. «Antonio Ligabue è più che un pittore e più che un artista. Ne esonda i confini, non rappresenta, non illustra, non ritrae ma prolunga la vita nella pittura», spiega lo stesso Sgarbi, ideatore della mostra oltre che curatore. «Ligabue descrive un mondo; non ha altro interesse. Non c’è favola: c’è rabbia, c’è sofferenza, c’è esaltazione».
Mentre Giuseppe Pende, altro protagonista del duplice evento (anch’esso esposto in circa 40 tele) «È un artista coltissimo che riflette sull’antico connubio tra arte e scienza e un uomo eclettico dalla personalità prorompente, gioiosa e coinvolgente. È pittore, scultore, atleta, pianista per diletto e anche amatissimo insegnante di disegno dal vero all’Istituto d’Arte di Fermo». Entrambi, quindi, li troviamo a Fermo: «L’uno a fianco dell’altro, vicini e distanti, a rappresentare la necessità dell’espressione artistica che, forse, è in ciascuno di noi».
Volpe, serpente, ragno: il corpo a corpo animalesco di Antonio Ligabue
Ligabue, del resto, risulta una figura decisamente anomala rispetto agli altri pittori del Novecento. Nella sua violenza, nella sua espressività animale, sostiene Sgarbi, si misura soltanto con Van Gogh, del quale può considerarsi una variante italiana. Il suo dissociato stato mentale lo portò all’isolamento, acuendone non poco le sofferenze. In questa esperienza di dolore, una sola consolazione, una sola possibilità di riscatto, percorsa fino in fondo: l’arte, che consente la fuga dalla condizione che si continua a considerare una malattia. L’arte è per Ligabue un antidoto allo squilibrio mentale ed è l’unico modo per dare ragione alla follia.
Scrive Marzio Dall’Acqua: «Ligabue dopo e oltre la leggenda oggi rappresenta una natura in tutta la sua complessità, nell’equilibrio biologico tra i diversi regni e le diverse specie e la mostra lo rappresenta. Il mondo di Ligabue è tra il presente e lo sparire del passato, se continua l’attuale incapacità di reagire alla crisi climatica. Intuiva la lotta per la vita come momento fondante dell’esserci e dell’essere, nell’inquietante rapporto totale, definitivo, di sospensione tra vita e morte. Straordinario momento insieme quotidiano, nel senso che apparteneva ai possibili eventi di ogni giorno, in ogni latitudine e con qualsiasi vivente, che faceva parte costitutiva delle pulsioni di sopravvivenza».
La mostra di Ligabue a Fermo rappresenta un’antologia di belve feroci che lottano per la sopravvivenza: una vera e propria giungla che l’artista immagina con allucinata fantasia fra i boschi del Po. La natura dipinta da Ligabue è il teatro di una violenza implacabile. Per Ligabue essere autodidatta vuol dire seguire una lingua propria, istintiva, fuori dall’accademia. Essere autodidatta è una condizione necessaria. Il suo, fin dagli inizi, è un corpo a corpo con la tela, in una dimensione visionaria, che non ha niente a che fare con il Surrealismo, e che rappresenta, attraverso gli archetipi della foresta, della giungla, della terra dei contadini, del fiume, la verità primaria di un uomo senza storia.
In realtà, prima della storia, liberare istinti, pulsioni, desideri e, ancor più, mimare l’urlo della tigre per meglio rappresentarla, è una liberazione come fu, per i pittori-cacciatori, nelle grotte di Lascaux. Con queste immagini primordiali si misura il pittore, fuori del tempo e fuori del suo tempo. La forza dell’uomo si manifesta come istinto animale belluino. Quello che è assolutamente singolare in Ligabue è che non si individua una fonte di ispirazione o una qualsivoglia trascrizione di modelli artistici e letterari. La pittura di Ligabue nasce come necessità di espressione, attraverso una fantasia che è rimasta infantile. L’unica sua fonte di ispirazione è lo zoo, il mondo degli animali in cattività, trasferito poi sul Po. Dal Po e dallo zoo esce Ligabue. Disagio è la condizione psicologica dell’artista, e disagio è ciò che distingue l’artista da chi non lo è. L’artista sa di essere artista, e intende il suo disagio come distinzione.
Negli autoritratti, invece, esibisce il suo mondo interiore. Parla con se stesso, si chiede e ci chiede qualcosa. Anche in questo caso è evidente il disagio. Ligabue si batte la testa con un sasso, cerca di scacciare gli spiriti maligni. L’autoritratto non è una forma di narcisismo, esprime la necessità di capirsi meglio, in un processo di autoanalisi. L’autoritratto è l’immagine del malessere, e Ligabue ci tiene a farlo conoscere. Qualche volta più tranquillamente va in motocicletta, evidente metafora di un animale nella foresta. Un’altra volta ci appare come un cacciatore, solenne davanti alla tela. Più spesso si mostra a mezzo busto, con lo sguardo allucinato o umiliato. In quelle serie, in quelle sequenze, Ligabue ci vuole dire di sé e di un mondo interiore.
La pittura di Ligabue è una proiezione metaforica del mondo nel suo stato di ebollizione, di violenza implicita nella forza. Volpe, tigre, leone, leopardo, serpente, grande ragno, gorilla e, talvolta quieto talvolta minaccioso, anche Ligabue. Gli animali che vede nella foresta sono simboli di forza, di energia, emblemi di un desiderio di libertà, di riscatto. Ligabue, uomo umiliato ed emarginato, come pittore si afferma e vince attraverso la potenza gloriosa dell’animale. La forza di Ligabue supera i confini dell’arte, e il confronto con un’opera di De Chirico e di Morandi lo mostra inequivocabilmente. Ligabue continua a essere sempre uno degli artisti italiani più popolari del Novecento.
Giuseppe Pende, un personalissimo sentire
Accanto a tanta forza e tanto vigore, l’opera di Pende si distingue nel panorama del Novecento per la sua poetica originale e per la maestria nel vero e nel verosimile delle nature morte, dei ritratti, degli scorci pugliesi, marchigiani e di Zara e dei paesaggi inventati, spesso immersi in un’atmosfera da sogno. Dipinge ciò che più ama per 80 anni, lasciando pochi mesi prima della sua scomparsa i pennelli che gli mette in mano a otto anni il padre, pittore dilettante di professione magistrato. Giuseppe Pende è affascinato sin da giovanissimo dalla pittura dei grandi del passato e non si rifà ad alcuna particolare scuola o movimento a lui contemporaneo, ma si affida al suo personalissimo sentire, alla sua spinta irrefrenabile al miglioramento, al suo essere al contempo scienziato e poeta della realtà e dell’immaginario sulla tela. Attratto dal nuovo, dal futuro, riempie ogni istante del suo presente e reagisce ai dolori dell’anima con un crescente attaccamento alla vita. Quell’intenso piacere di vivere riversa nella pittura insieme a tutto l’amore per la bellezza del creato e lo fa con una nobile ricerca, una tecnica sopraffina e una creatività effervescente.
Per questo la mostra di Palazzo dei Priori, con dipinti di proprietà degli eredi, potrebbe sembrare a colpo d’occhio più una collettiva di pittori che una piccola selezione di opere di un unico artista, ma il filo conduttore è il suo genio pittorico che incanta anche per l’equilibrio compositivo, la bellezza, la poesia e per la serenità e la sorpresa indotte nell’osservatore che, al cospetto di alcuni suoi paesaggi, può anche giocare con la mente cercando quei particolari microscopici e invisibili a occhio nudo che li fanno divenire, dopo l’impatto iniziale, dei paesaggi surreali.
Emblematica l’opera Con le pietre parlavo, variante del ‘92. Pende sceglie di tenersi lontano da mostre e concorsi, dalle grandi piazze artistiche e dal mercato dell’arte di cui non condivide i meccanismi in atto alla sua epoca. In tarda età scrive «Non ho mai tenuto a procurarmi fama di pittore di una certa levatura per molte ragioni. Soprattutto perché nella mia vita di artista la più parte delle mie energie sono state spese per migliorare me stesso e dare quanto più ho potuto ai miei allievi». Le sue lezioni efficaci, spassose e ricche di agganci interdisciplinari, citate come straordinarie da generazioni di studenti, contribuiscono a tenere accesi la fama e il ricordo di questo artista, molto stimato dai suoi concittadini anche come persona in ragione della sua gentilezza, generosità e umanità. E ora la mostra di sicuro richiamo si propone di dare risalto all’artista anche al di fuori dei confini locali.