L’anno di Leonardo da Vinci volge al termine – costellato da grandi e piccole iniziative dedicate al sommo umanista – per cedere speditamente la ribalta all’ineluttabile 2020 che sarà invece l’anno di Raffaello Sanzio: anche per l’Urbinate si approssima, infatti, la ricorrenza topica del cinquecentenario dalla morte. In questo clima di celebrazioni storico-artistiche, il terzo gigante del Rinascimento italiano, Michelangelo Buonarroti, segna il passo, rischiando il confino, almeno per un biennio, in una zona d’ombra della nostra labile memoria. A dissipare questi temibili e iniqui vapori di Lete, ci ha pensato una piccola quanto preziosa mostra – allestita a Palazzo Barberini – che visitiamo proprio nel giorno dell’inaugurazione e che, come ci racconta il coordinatore scientifico Yuri Primarosa, «prende in esame un particolare settore della produzione di Michelangelo: la realizzazione di disegni, di cartoni, di cartonetti – così vengono chiamati nei documenti – che l’artista eseguiva non come studi preliminari all’esecuzione di suoi quadri ma come fogli sciolti da regalare ai suoi amici e ai suoi committenti e, soprattutto, da destinare ai suoi collaboratori». Tra questi “interpreti” michelangioleschi spicca Marcello Venusti, affiancato nella mostra da Jacopino del Conte, da Lelio Orsi e da Marco Pino.
Perché Michelangelo, ci spiega ancora Primarosa “era essenzialmente uno scultore e un architetto prestato in modo eccellente alla pittura, occasionalmente, per delle grandi committenze pontificie: i suoi quadri da cavalletto infatti sono rarissimi e suoi disegni egli stesso li ha diffusi tra i suoi allievi e seguaci perché fossero tradotti in pittura». Raggiungiamo con solerzia Francesca Parrilla, curatrice della mostra assieme a Massimo Pirondini: «Si tratta di una mostra di ricerca – chiarisce – in gran parte frutto della mia tesi di dottorato su Marcello Venusti e i seguaci di Michelangelo». «Cosa ci può dire in breve di Venusti – chiediamo – indubbiamente il protagonista dell’esposizione»? «Era un pittore lombardo che giunse a Roma negli anni ‘40 del 1500 e che divenne subito l’artista più apprezzato come copista ufficiale di Michelangelo». Avvertiamo un confuso tramestio nella sala e abbiamo la ventura di assistere al fuori programma della collocazione “dal vivo” di un dipinto ritardatario, che apprendiamo essere uno dei più importanti della piccola mostra: una Deposizione di Venusti proveniente dall’Accademia di San Luca, restaurata per l’occasione, riscoperta e attribuita al pittore lombardo proprio dalla giovane curatrice. Nel volgere lo sguardo ci aggredisce inaspettatamente, su una lunga parete, l’acceso cromatismo di una rappresentazione sacra tra le più classiche: Gesù è nell’orto del Getsemani mentre sullo sfondo si avvicinano i soldati romani condotti da Giuda. Qui Venusti impiega dei colori decisamente acidi, potremmo dire psichedelici, quasi a sottolineare – e qui azzardiamo – la valenza animica più che storica di ciò che sta per accadere. E poi come non meravigliarsi di quell’atmosfera pop che pervade tutta la scena!
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