Da tempo il direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte, Sylvain Bellenger, desiderava rinnovare il suo museo: «Bisogna inventare un nuovo Capodimonte», diceva. Ed ecco la mostra “Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli”, con cui va avanti il percorso di rinnovamento. Le opere sono sempre quelle delle collezioni del museo ma collocate in modo diverso. E sono state anche felicemente eliminate, sulle porte d’ingresso di due sale, le scritte “Caravaggeschi del Nord”, come si leggeva sulla porta di sinistra, e “Caravaggeschi del Sud”, come si leggeva su quella di destra. Mettevano tutta l’arte pittorica, dal Seicento in poi, sotto l’egida di Michelangelo Merisi (1573-1610), detto il Caravaggio.
Questi aveva avuto molto successo da vivo ma, poi, era stato pressoché dimenticato. Fin quando «Il naturalismo di Caravaggio costituisce la spina dorsale dell’arte napoletana», scrisse un giovane Roberto Longhi (1890-1970). E fu Vangelo. Longhi era un critico che, sostenuto da una corrente intellettuale insofferente alle idee estranee al proprio ambiente, andava e ancora va, nonostante lui non ci sia più, per la maggiore. E finora nessuna iniziativa istituzionale, come questa mostra, l’aveva contraddetto con tanta chiarezza. Ci voleva del coraggio. E questa mostra lo ha avuto.
Il professore Stefano Causa, curatore, insieme a Patrizia Piscitello della mostra “Oltre Caravaggio”, ha ragionevolmente affermato che Caravaggio, che rimase a Napoli per un tempo piuttosto breve (dal 1606 al 1608 e poi dal 1609 al 1610), non aveva potuto influenzare l’arte napoletana quanto Jusepe de Ribeira (1591-1652) che, arrivato a Napoli nel 1616, vi sposò Caterina, figlia di un pittore napoletano, ne ebbe cinque figli e, profondamente napoletanizzato, si fermò nella città fino alla morte. D’altra parte, qualcuno addirittura potrebbe semplicemente affermare che il vero influencer dell’arte napoletana sia stata Napoli stessa. Tout court. E ricordare che il naturalismo di quest’arte, attribuito a Caravaggio, è, ab antiquo, autonomo prodotto della cultura napoletana, già in Magna Graecia, ed è visibile anche negli affreschi e nelle pitture sulle curve superfici dei vasi. Tanto che possiamo affermare che il naturalismo è in relazione con le antiche origini della città.
Dal 2018, nel Real Bosco di Capodimonte esiste il centro internazionale “La Capraia”, nato dalla collaborazione tra il Museo di Capodimonte e The Edith O’ Donnel Institute of Art and Architecttural History University of Texas at Dallas. Nell’ambito degli studi svolti in questo centro sulle città-porto, si è riconosciuto che Napoli, sorta nella prima metà del V secolo a. C., con l’apporto degli abitanti di Cuma (nata nell’VIII), ha una ininterrotta continuità storica, la più lunga nel mondo occidentale. Questo non si può dire della pur antichissima Atene che, con il Pireo, si affacciò al mare cinque secoli dopo la sua fondazione, quando già la società ateniese si era costituita secondo la mentalità terricola: sulla base del possesso della terra e del denaro. Né si può dire della vecchia Marsiglia, più volte sopraffatta dall’invasione islamica. Mentre si può affermare che Napoli è l’unica città-porto sopravvissuta conservando a lungo lo stampo delle sue origini.
Essere una città porto significa avere la consapevolezza che “stiamo tutti sulla stessa barca”, con quel che segue. Essere una città porto, per di più vesuviana, significa conservare il ricordo di maremoti e terremoti, come quelli terribili che, nel 1345, fecero scappare da Napoli Francesco Petrarca tutto tremante di paura. E avere la consapevolezza che esiste una forza naturale superiore all’uomo. Mentre la vista dell’ampio e curvo spazio concluso del mare, che si gode dalle colline napoletane, suggerisce una visione immanente del mondo.
Una visione naturalistica è affermata chiaramente e con autorevolezza anche dalla filosofia meridionale iniziando dal filosofo-poeta Parmenide di Elea, continuando con il suo collega Tito Lucrezio Caro di Ercolano e poi con Bernardino Telesio, Giovan Battista Della Porta, di Vico Equense, che fu anche scienziato e commediografo, e, ancora, con Giordano Bruno di Nola, bruciato vivo per le sue idee, con Tommaso Campanella di Stilo e, infine, con il napoletanissimo Gian Battista Vico.
Questa visione del modo, che ripudia schemi sovrapposti, ha comportato l’adozione, nell’arte pittorica napoletana, di una composizione adeguata. La composizione di un dipinto è un elemento forse poco attenzionato dai critici ma costituisce appunto la base del pensiero con cui un artista concepisce il mondo e il suo spazio, la sua prospettiva.
Nel Quattrocento, applaudita dalle Autorità, nacque la razionale prospettiva toscana, che considera lo spazio come una scatola che, proiettata sul piano del dipinto, suggerisce la meta di un infinito che, in questo mondo, non c’è. Ma la pittura napoletana, frutto di una diversa idea del mondo, è restia ad accettare la prospettiva toscana e viene denigrata e mortificata. Ma Napoli resiste. Antonello da Messina (1430-1474), allievo del napoletano Colantuono, nel San Girolamo nello studio, fa ruotare un ampio spazio, come evidenziano le mattonelle del pavimento. Tra il XV e il XVI secolo, Cicino da Caiazzo e il Maestro di San Severino, nei loro dipinti, negano la prospettiva toscana, circondando le figure con la libertà del fondo d’oro, venendo giudicati come arretrati. Più tardi, il meraviglioso presepio rende, in toto, un’ampia, coerente, ottimistica rappresentazione della vita reale così come è vista e vissuta dal popolo napoletano.
Mentre, a proposito della visione prospettica dello spazio-scatola toscano, c’è l’espressione popolare napoletana “Tene ‘a capa a cascettella”, che descrive colui che ha scarsa intelligenza e una visione ristretta del mondo.
Quando Caravaggio, nel 1606, arrivò a Napoli, la città, che era una megalopoli tra le più popolose del mondo di allora, gli apparve come una straordinaria visione. Ne captò il suo vitale fermento e, nella sua prima opera napoletana, “Le 7 opere di misericordia”, sostituì lo spazio canonico con quello formato dal movimento della folla. Ma, prima di lui, c’è il geniale Francesco Curia (1538-1608), che sbatacchia questo spazio, per realizzarne il libero movimento. Poi Luca Giordano (1634-1705) unisce l’aereo spazio barocco al caldo realismo delle figure. Infine, c’è la pittura settecentesca del mosso spazio di Gaspare Traversi (1722-1770). E poi ci sono le vedute di Napoli, in cui si afferma, ormai matura e consapevole, la prospettiva napoletana di un curvo spazio che lentamente ruota.
Ne parlavo diffusamente nell’unico libro che ho pubblicato, “Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio-tempo”, affermando che oggi, con lo sviluppo dell’informatica, è possibile rappresentare precisamente la prospettiva napoletana. Questo potrebbe portare a un rinnovamento della storia dell’arte e anche a «Impensate aperture di mercato…dando indirettamente prestigio anche al moderno prodotto made in Naples», avvertiva Vincenzo Pacelli, per un nuovo racconto della pittura “di” Napoli.
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