Al Palazzo del Podestà di Montevarchi è visibile una selezione di opere di Ottone Rosai (1895-1957) – dipinti e disegni – provenienti da diverse collezioni private. Si tratta di un nucleo di opere ben congegnato che fa luce su uno dei periodi più complessi e potenti dell’artista toscano.
Archiviate le suggestioni cubo-futuriste e i furori del popolaresco e del teppismo, dopo la conclusione della Prima guerra mondiale, Ottone Rosai si orienta verso esperienze figurative nelle quali il disegno assume ancora più di prima un valore determinante fino a raggiungere vette molto alte che hanno in sé memorie dei maestri della pittura fiorentina del passato da Cimabue a Masaccio.
Il suicidio del padre Giuseppe nel 1922 porterà Ottone a interrompere la sua carriera artistica per prendere in mano l’attività paterna e cercare di riassestare anche economicamente le sorti della famiglia. Dal 1922 al 1927 sono anni bui, di sconforto e frustrazione, anni nei quali si è dedicato alla pittura solo sporadicamente. Riprende a dipingere ma la strada è in salita, i sensi di colpa per non aver intuito i malesseri che hanno portato il padre a una scelta così radicale lo perseguitano, sono momenti di crisi interiore e di prese di coscienza. È allietato solo dalla presenza della moglie Francesca, che ha sposato nel 1924, donna forte e intraprendente che nel 1930 – al culmine di una fase ancora più negativa per Ottone perché la sua attività di artista non riesce a ritornare ai livelli di un tempo – gli consentirà, prendendo in mano l’attività di famiglia, di ritornare a dipingere a tempo pieno e a rientrare di diritto nel mondo dell’arte. Di lì a poco, infatti, Rosai lascia via Toscanella, abbandona il chiassoso quartiere di San Frediano e si ritira nel casotto del dazio in via Villamagna. Qui, isolato dal mondo, a contatto diretto con la campagna, resterà dall’aprile del 1932 all’estate del 1933: nascono in quei giorni molte delle opere per la grande mostra a Palazzo Ferroni dell’ottobre 1932.
Il lasciare le strette vie del centro storico fiorentino con i vicoli tortuosi e le case alte e il ritrovarsi in mezzo alla natura, tra campi coltivati, cieli azzurri e sentieri costeggiati da siepi porta Rosai anche a un radicale cambiamento dei soggetti per i suoi dipinti e la sua tavolozza muta verso tonalità più chiare e luminose. Trae nuova linfa dai luoghi circostanti e la tematica di Rosai si rinnova.
Se la prima mostra personale che impose Rosai nel mondo dell’arte fu quella del 1920 a Palazzo Capponi – recensita in modo lusinghiero da Soffici e da De Chirico – quella del 1932 a Palazzo Ferroni fu quella che gli consentì di riaffermarsi nel mondo dell’arte e del mercato.
Il trasferimento nel settembre 1933 nello studio di via San Leonardo porta Rosai in una dimensione diversa: a metà strada tra città e campagna, l’artista realizza opere i cui soggetti paiono caratterizzati da un’incomunicabilità di matrice metafisica. La linea è meno squadrata e la figura umana risulta assorta e pensosa, astratta in un proprio mondo dominato da un pessimismo cosmico di leopardiana memoria.
La partecipazione alla Biennale di Venezia del 1934 con dodici opere suscita un interesse ancora maggiore della critica e dopo questa esperienza le esposizioni si moltiplicano con successo. Sono anni di fervida vita culturale a Firenze, frequenta il caffè delle Giubbe rosse e stringe amicizia con Montale e i poeti ermetici, e poi con Gadda, Landolfi e soprattutto con Bilenchi.
La natura lo attrae sempre più e gli suggerisce spunti sempre nuovi per le sue pitture. Sul finire degli anni Trenta un nuovo periodo cupo appare all’orizzonte: siamo alla vigilia della Seconda guerra mondiale e anche per Rosai niente sarà più come prima.
Parallelamente all’attività pittorica di Rosai ben rappresentata in mostra, deve essere presa in considerazione la produzione dei disegni che se talvolta è data da schizzi e appunti per la realizzazione di dipinti, molto spesso ha una vita autonoma e si tratta di opere compiute e con una valenza del tutto indipendente. È forse più nel disegno che nei dipinti che si percepisce lo stato d’animo dell’artista tanto che all’energico e nervoso tratto che caratterizza le esecuzioni della metà degli anni Venti, con il passare del tempo si giunge a realizzazioni più pacate e di ampio respiro con un impianto maggiormente deciso e calcolato.
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