L’enorme aspettativa generata dalla mostra su Raffaello Sanzio alle Scuderie del Quirinale è destinata purtroppo a rimanere ancora insoddisfatta per la chiusura di tutti i luoghi di cultura in conseguenza dell’emergenza sanitaria in corso.
La celebrazione per il cinquecentenario della morte del genio urbinate, avvenuta il 6 aprile 1520, segna una falsa partenza durata solo 4 giorni che costringerà i visitatori, compresi i molti che già avevano acquistato il biglietto (più di 70.000), ad affrettarsi al momento della, speriamo prossima, riapertura fino al 2 giugno.
“Raffaello 1520-1483” è una mostra al contrario: come suggerito dal titolo si inizia dalla fine e si percorre a ritroso la straordinaria parabola artistica di un pittore che con il suo stile ha contribuito a modellare un canone di bellezza che pervade profondamente ancora oggi la nostra società, cristallizzando e universalizzando i valori che furono propri della sua epoca, quel Rinascimento di cui fu uno dei più alti rappresentanti.
Data la premessa, il visitatore non dovrà stupirsi quando si troverà nella prima sala la riproduzione in scala 1:1 del sepolcro di Raffaello che, per sua stessa volontà, si trova all’interno Pantheon, l’architettura classica da lui più ammirata. E quell’ ILLE HIC EST RAPHAEL, incipit del famoso epitaffio posto sulla sua tomba, non è una frase scontata, a gloria postuma del defunto, bensì lo specchio di un sentimento universalmente condiviso, allora come oggi: è vero, la natura che prima temette di essere vinta da lui, temette poi di morire con lui. Parole altamente evocative che se da una parte testimoniano un giudizio diffuso, dall’altra forse hanno contribuito a semplificare la reale comprensione della sua arte, non da un punto di vista della critica ma sicuramente da parte del grande pubblico che ha identificato in lui soltanto il concetto di bellezza ideale, tralasciando l’aspetto intellettuale profondamente tormentato di uomo voracemente assetato di stimoli culturali.
Il suo rapporto con Roma è al centro di questo progetto scientifico e quello che viene meglio raccontato grazie alla presenza in mostra di quadri, disegni e lettere che rievocano il clima intellettuale all’interno del quale si sviluppa uno degli aspetti più interessanti legati a Raffaello, quello della conservazione dei beni culturali. Infatti nella sua veste di “Ispettore generale delle belle arti”, carica affidatagli da Leone X Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, il pittore pone publicamente, ed è uno dei primi a farlo, il problema della tutela delle vestigia antiche e delle opere d’arte. Si tratta di un concetto che pone le fondamenta, poi rafforzate nel corso dei secoli da altri grandi artisti come Canova, su cui poggiano tutte le leggi pontificie emanate a partire dalla fine del Settecento: prodromi dell’attuale legislazione italiana dei beni culturali.
Frutto di questo clima è il progetto, destinato a rimanere incompiuto per la morte prematura dell’artista, della realizzazione di una pianta che avrebbe dovuto illustrare l’immagine della Roma antica, partendo dallo studio e dal rilievo di quel che restava dei monumenti.
È in questa sezione che viene esposto il ritratto di Leone X, il cui prestito dalle Gallerie degli Uffizi (Palazzo Pitti) ha fatto dimettere in blocco il comitato scientifico del museo per protesta. Considerando l’importanza della ricorrenza e soprattutto il valore scientifico, non si può però non condividere la bontà della scelta di Eike Schimdt, Direttore degli Uffizi: la trasferta romana è stata inoltre l’occasione di un approfondito intervento di restauro da parte dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, eccellenza italiana in materia.
Il museo fiorentino ha partecipato in maniera decisiva alla realizzazione della mostra, prestando una cinquantina di opere mentre i Musei Vaticani, l’altro polo raffaellesco, ha inviato uno degli arazzi realizzati per la Sistina, Il Sacrificio di Listra. E se è vero che molte delle opere in mostra possono essere normalmente ammirate nell’arco dei 300 km scarsi che separano Roma da Firenze, è altresì vero che questa occasione offre la possibilità di vedere per la prima volta insieme in Italia alcuni capolavori che ormai da secoli hanno preso la via dell’estero, in primis il ritratto di Baldassarre Castiglione del Louvre. La Madonna della Rosa di Madrid, la Madonna Tempi di Monaco di Baviera e l’emozionante Madonna d’Alba di Washington sono un trittico di opere che da sole valgono ben più di una salita al Quirinale. Realizzata tra il 1509 e il 1510, in piena impresa della decorazione della Stanza della Segnatura in Vaticano, quest’ultima è esemplificativa dell’apparente semplicità che sta nella bellezza di Raffaello: lo studio calibrato dei gesti che sta alla base del complesso equilibrio della composizione cela in realtà un dinamismo e una tensione aggiornati alle sperimentazioni fiorentine di Leonardo.
I modelli di riferimento: qui sta forse una delle chiavi per comprendere la grandezza di Raffaello, la sua incredibile capacità di assimilare tutta la cultura figurativa con cui entrò in contatto, cogliendo ovunque gli elementi più interessanti e riformulandoli in composizioni sempre originali e sempre più perfette. Le ultime sale di questa mostra lo documentano, andando a ritroso, quindi prima della partenza per Roma, si pone il periodo del soggiorno fiorentino dove venne a contatto con Michelangelo, Leonardo e tanti altri, e prima ancora in Umbria a bottega da Perugino fino a tornare agli insegnamenti d’infanzia del padre, pittore e uomo di corte anche lui, Giovanni Santi. L’uomo che contribuì, più che da un punto di vista artistico, a dargli un’apertura mentale cosmopolita.
Raffaello si confronta con tutti e risolve sempre questi rapporti in proprio favore e con formule originali, elevando, opera dopo opera, la sua maniera a vette inarrivabili. Talmente in alto, che molti artisti nei decenni successivi, non oseranno più avventurarsi per quei sentieri.
A testimonianza del carattere fortemente intellettuale della sua arte, la caratura della sua fiorente bottega: Giulio Romano, Perin del Vaga, Polidoro da Caravaggio furono tra quelli che ne raccolsero l’eredità e solo un evento traumatico come il sacco di Roma del 1527 impedì di compiere la loro realizzazione nella Città Eterna.
La mostra, che si apre con la tomba, si chiude con lo splendido autoritratto giovanile degli Uffizi: un’opera di pregevole fattura che raffigura un ragazzo di 24 o 25 anni. Ma è proprio in quell’ombra appena percettibile sulla sua sinistra, a quel richiamo velato alla letteratura, e quindi alla conoscenza (in questo caso alla storia di Narciso), che sta la meravigliosa complessità di questo artista.
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