La storia è quella di un quadro. Un’opera dove passa tutta l’arte del Rinascimento. Sullo sfondo, attraverso la finestra albertiana, aleggia un paesaggio leonardesco. Al centro invece, il volto delicato della donna ha un tratto inconfondibile. La sua dolcezza rivela la mano dell’artefice, Raffaello Sanzio, uno dei tre “fari luminosi” del Cinquecento, e svela l’identità della tavola: la seducente “Madonna Aldobrandini”.
L’olio su tavola, manifesto dell’esposizione Raffaello e gli amici di Urbino (fino al prossimo 19 gennaio), è caratterizzata da un piccolo garofano al centro e presenta subito una delle novità della mostra. Insieme a Barbara Agosti, la curatrice dell’evento, Silvia Ginzburg, facendo fare un balzo in avanti, propone per quest’opera, proveniente dalla National Gallery di Londra, una nuova datazione, il 1512 anziché il 1510, perché solo allora Raffaello, avendo appena terminato il ciclo delle “Stanze Vaticane” (1508-11), avrebbe introiettato la lezione michelangiolesca, come sembra evidente anche dalla forma serpentinata dei corpi in primo piano.
Ma entriamo nel vivo della mostra. Oltre alle due curatrici, ad accoglierci in visita, con eccezionale disponibilità è Peter Aufreiter, il direttore uscente della Galleria Nazionale delle Marche a Palazzo Ducale. Aufreiter, dopo quattro anni di impegno e quasi venticinque mostre realizzate, ha appena concluso il suo mandato. Prima che partisse per Vienna dove ha l’incarico di dirigere il Museo della Tecnica, lo abbiamo intervistato per parlare di questo progetto espositivo che, a tutti gli effetti, ha aperto le celebrazioni dei 500 anni dalla morte dell’artista, e anticipato la prossima esposizione alle Scuderie del Quirinale dal 5 marzo 2020. Ecco cosa gli abbiamo chiesto.
Quali sono le principali novità portate in mostra tra le 9 opere di Raffaello e le altre 65 restanti? Si può parlare di nuove attribuzioni, di un puntuale aggiornamento agli studi o di importanti alternative cronologiche sul nostro Raffaello?
«Sono molte le novità: oltre alla nuova datazione della “Madonna Aldobrandini”, in mostra ci sono altri elementi che motivano un aggiornamento agli studi».
Qualche esempio?
«Sulla “Predella di Fano”, parte della pala realizzata per la chiesa di Santa Maria Nuova, da sempre attribuita a Perugino, sembra ci sia in realtà la mano di Raffaello. È un’ipotesi in fase di studio per una mostra che non perde l’occasione di indagare e chiarire meglio anche i rapporti di Raffaello con Luca Signorelli (presente in mostra con la sola Crocifissione, opera in situ), come risulterebbe dallo “Studio di figura nuda di spalle e per il Dio Padre del Gonfalone della Santissima Trinità” (recto), e “Studi per la Vergine, il Bambino e san Giovannino e una veduta di edifici” (verso). Nel foglio in prestito che arriva dall’Ashmoleum Museum, si vedrebbe come Raffaello, nella sua fase iniziale di maestro autonomo, abbia studiato a fondo non solo l’opera di Luca Signorelli a Urbino, ma anche la produzione di Città di Castello, deducibile nel “Martirio di San Sebastiano”. Un altro dato abbastanza significativo emerso durante la progettazione dell’esposizione urbinate, è il “Cartone per Mosè inginocchiato davanti al roveto ardente” proveniente dalla Galleria Nazionale di Capodimonte. Il disegno era indirizzato alla stanza di Eliodoro in Vaticano, ed essendo stato realizzato negli anni del pontificato (1513-1521) di Leone X Medici, l’opera segnerebbe una svolta nella carriera di Raffaello, perché mette a punto una nuova imponenza formale, lontana dalla delicatezza della cifra iniziale della sua pittura. Risultato: è un Raffaello già di stile tutto “leonino”».
Altre ipotesi invece restano ancora dubbiose. C’è incertezza per esempio sull’identità della cosiddetta Muta, una composizione leonardesca nella posa, ma ancora largamente umbra per la tavolozza di colori scuri.
«Non ci sono nuovi documenti o fonti inedite e rivelatrici per aggiornare le informazioni già note, ma possiamo confermare come plausibile l’ipotesi che si possa trattare davvero di Giovanna da Montefeltro, moglie di Giovanni della Rovere di Senigallia, cioè la nobildonna che ha raccomandato il giovane Raffaello nel momento del suo arrivo a Firenze. È per ringraziarla del favore che Sanzio potrebbe avere eseguito questo dipinto».
Se finora il catalogo delle opere attribuibili a Raffaello dovrebbe contare un totale di 93, escludendo la “Perla di Modena”, solo recentemente riferita al Maestro urbinate, in mostra sono presenti “solo” 9 sue opere, tra cui la “Madonna Conestabile”, “La Gravida”, “San Sebastiano”: questo numero ristretto spiega quindi il focus allargato sugli intrecci con gli altri pittori, a partire dagli “amici” contemporanei, come Gerolamo Genga, Domenico Alfani, Francesco Francia, Timoteo Viti, e altri quali Pietro Perugino, Pinturicchio e Giulio Romano.
La prima opera nella carriera di Raffaello risalirebbe al 1497, ed è proprio l’affresco staccato e “guasto” della casa-museo natale di Urbino, “Madonna con il Bambino”, (che Longhi confermava alla mano di Raffaello, mentre Cavalcaselle, non vedendo, come sostiene in catalogo Anna Maria Ambrosini Massari, “lo scarto nella visione pittorica tra padre e figlio”, l’attribuiva proprio al padre Giovanni Santi, il quale avrebbe dipinto la moglie, Magia, con il figlio Raffaello in grembo). Mentre l’ultima del 1519-20 sarebbe la celebre e inamovibile “Trasfigurazione” dei Musei Vaticani. Restano pertanto aperte ancora molte delle questioni sugli studi raffaelleschi, ma consiste anche in questo la prova di coraggio affrontata dalla mostra, cioè aprire le danze sul caso di Raffaello nell’occasione preziosa del cinquecentenario dalla morte, avvenuta nel 1520, all’età di 37 anni: inaugurare una stagione di studi e ricerche, restauri o analisi diagnostiche, esattamente come ha fatto la Galleria Borghese con le indagini approfondite (attraverso scansione macro XFR e riflettografia IR ipertestuale, oltre che revisione estetica e conservativa) sul “Trasporto” Baglioni commissionato appunto da Atalanta Baglioni. La tavola della Borghese è preceduta da un consistente numero di disegni preparatori, il più nutrito dedicato da Sanzio a una sola opera. E ciò va a conferma di una prassi fuori dal comune in Umbria, che quindi soltanto Raffaello adotta in quegli anni e in quel contesto, come sottolinea Annamaria Petroli Tofani in catalogo. Rispetto a Urbino è a Firenze che: «il disegno costituiva tradizionalmente non solo una esercitazione quotidiana della mano e del pensiero, ma la fase disegnativa entrava nella fase del processo di germinazione e affinamento delle idee che si sarebbero concretizzate in dipinti, sculture e architetture».
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