Forse noi italiani stiamo attraversando davvero un periodo di sfiga. Inutile elencarne i motivi, ognuno di noi li sa fin troppo bene. Ma alla serie che comincia per corona e finisce per virus, se ne sta aggiungendo un altro: la mostra di Raffaello vista in preview stampa ieri alla Scuderie del Quirinale, a Roma, e che speriamo in tanti, tutti quelli che hanno già prenotato la visita e quelli che intendono farlo, la possano vedere. Perché raramente – e mentre lo scrivo quasi mi commuovo – si è vista una mostra così bella e ben fatta. Un’esposizione che doveva essere, anzi deve essere, come ha dichiarato il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, giustificando il discusso prestito del Leone X, che oggi abbaglia nei suoi color freschi di restauro in una delle prime sale della mostra, “l’orgoglio dell’Italia”. La mostra tanto attesa di quello che nel Cinquecento è stato l’artista più noto al mondo, conteso dai potenti della terra che, come molti cari agli dei, morì giovane, lasciando dietro di sé un vuoto drammatico. Non a caso la mostra si apre con un quadro che raffigura la morte del supremo artista al cui capezzale accorre addirittura papa Leone X e poi, subito dopo, i funerali che coinvolgono un’intera città che lo piange. Perché Raffaello, a differenza di quello che alcuni oggi sostengono: artista meno interessante rispetto al più acuto e genialissimo Leonardo che i francesi ci hanno un po’ scippato (ma colpa anche nostra, per carità) confezionando però una mostra – pare, a seconda di chi l’ha vista (non è il caso della sottoscritta) – non all’altezza delle aspettative, Raffaello, dicevamo, in questa mostra, che invece soddisfa appieno le aspettative, si conferma artista sommo. Eclettico, che spazia dalla pittura a un virtuosismo del disegno che solo i grandi pari a lui – Michelangelo e Leonardo, appunto – hanno potuto vantare. Ma che era anche architetto, studioso di archeologia, fine letterato e soprattutto un grande, grandissimo intellettuale. Non a caso ascoltato da grandi, grandissimi papi, come Giulio II e Leone X, figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico, quelli a cui si deve l’idea moderna, non solo di Roma, ma anche della cultura, del significato spesso così ambiguo di questa parola.
Ma se le cose stanno così, dov’è la sfiga? Nel fatto che non è certo se questa mostra potrà rimanere aperta. Lo rimarrà, vogliamo sperare e chiedere a gran voce, ma probabilmente con ingressi contingentati, forse allungando l’orario di apertura in modo da dare a tutti la possibilità di vederla. Ma questo significa costi altissimi, straordinari da pagare, che forse la probabile vendita dei biglietti inferiore al previsto non ripianerebbe.
Un’altra vittima sul maledetto altare del coronavirus. Perché, quando si riesce a fare una mostra di così alto livello – nella memoria vado indietro di 7 anni per tornare a un’impresa del genere: la fantastica mostra su Pietro Bembo a Padova e, in misura minore, quella di Rosso e Pontormo a Palazzo Strozzi di Firenze un anno dopo – siamo costretti a fare un ingresso sì e uno no, forse ad impedire che tutti la vedano.
E a tal proposito mi permetto una parentesi sull’anteprima stampa di ieri. Mai vista una preview così affollata, tipo Biennale di Venezia quando nei padiglioni entrano tutti tranne i giornalisti. Ieri, ci saranno state cinquecento, mille persone a spintonarsi per fare foto. Tutti giornalisti? Mah. Difficile pensare a Roma e l’Italia con una tale offerta di informazione. Molti erano imbucati, creando una ressa tale per cui c’era da invocare “o cinese co ‘a tosse”, la barzelletta napoletana su come disintegrare le file, che girava un po’ di settimane fa. Nessun metro di distanza rispettato e molti addetti stampa (in questo caso veri) arrivati da Milano e parecchi dall’estero, evidentemente non timorosi di essere infettati dai presunti untori italiani. Tale la calca, che un operatore tv si è sentito male e, tra trilli continui dei dispositivi di sicurezza, è stato sgombrato in fretta e furia il primo piano, facendo accedere al secondo i cosiddetti giornalisti e mandandone fuori altri senza cappotto dal piano terra.
Ma torniamo alla mostra, che merita sul serio. Non ve la racconto da storica dell’arte poiché non lo sono, ma ci provo da incantata del Rinascimento, quale invece sono. Intanto un’impostazione originale, à rebours, che fa molto story telling, iniziando dall’anno della morte, il 1520, piuttosto che da quello della nascita, il 1483, in modo tale che la storia dell’Urbinate, formatosi a Firenze e poi a Roma, sia proposta dalla sua fine, dall’apogeo come artista, indietro fino agli inizi. E’ la pittura, la scelta delle opere a raccontare il fiorire, la maturazione di un’arte sublime, che, da un’iniziale e splendente nitore – l’ammaliante Dama col liocorno – via via si fa più complessa, più plastica, più scenografica, senza però mai perdere quel carattere unico: la perfezione, o qualcosa molto vicino ad essa.
Dalle opere del periodo fiorentino a quello romano – ma quanto ha dipinto Raffaello, precocissimo e instancabile!, e quanto ha lavorato la sua vastissima bottega – si svolge questo incredibile nastro visivo, dove la regia compositiva si complica. Dalle iniziali madonne col bambino – imperdibile quella a bocca lievemente aperta che arriva dall’Alte Pinakothech di Monaco – i soggetti religiosi si fanno plurali, arricchendosi di elementi e colti dettagli, come i panneggi delle vesti, che Raffaello riproduce dopo aver studiato la statuaria. Si accentua il virtuosismo dello sfumato, si affinano la palette cromatica e quei particolari che raccontano la grandezza dell’artista: i piedini capricciosi del bambinello, lo sguardo penetrante e come un po’ sfuggente di alcune donne, Madonne comprese, mentre si conferma quello stile autorevolmente retorico, per cui la figura è protagonista assoluta e domina la scena. Lo sfondo, l’ambiente raramente sembra interessare Raffaello, a volte lo nega con un monocromo addirittura scuro, concentrato com’è sulla psicologia e la perfezione del soggetto. Più efficaci, da questo punto di vista, i soggetti laici: la Velata, la Fornarina, il ritratto di Baldassarre Castiglione, Leone X, che certo soggetto laico non è, ma di cui l’artista sottolinea il potere temporale, la rivendicazione del potere e basta, verrebbe da dire.
Ma è nei disegni, tantissimi proposti dalla mostra, che forse si hanno le sorprese maggiori. Pochi e sapientissimi tratti per svelare una figura, un movimento, per creare una sospensione inaspettata, tratteggiare l’enigmatica espressione di un volto. Preziosissimi disegni che insieme alla decorazione, i bassorilievi e ovviamente la pittura consentono di fare un eccezionale excursus nelle arti plastiche e visive del Rinascimento, ad opera quasi esclusivamente di un unico autore: Raffaello.
Infine, c’è un’altra nota importante che questa mostra sottolinea. Come spesso accadeva all’epoca, e in quanto artista, Raffaello è stato un solido intellettuale. Di suo ci ha messo la curiosità: non a caso va a Firenze per studiare Leonardo e Michelangelo e manda in giro i suoi allievi a documentarsi su altri artisti. Ma ci ha messo anche qualcosa in più della curiosità: la visione, la capacità di vedere le cose in prospettiva, come emerge dallo studio dell’archeologia, dalle visite alle rovine romane fatte insieme a Castiglione e a Bembo e dall’ambiziosissimo progetto di uno studio architettonico delle vestigia che propone in una celebre lettera, oggi in mostra, a Leone X di cui riconosce, quasi in un omaggio speculare, la “grandezza d’animo”. Un progetto che guarda avanti, convinto com’è, Raffaello, che la conoscenza dell’antichità abbia un valore euristico per la definizione del presente.
Per questo re e papi se lo contendevano, come artista insuperabile, ma anche ascoltando e facendo tesoro di quella sua capacità di pensiero. Di quella visione per cui l’arte diventa davvero cultura.
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