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Valter Curzi e la sua storia dell’arte per quasi principianti
Arte moderna
Prima della pandemia di Coronavirus eravamo abituati ad assistere a file di turisti agli ingressi dei grandi musei e a calche nelle sale dell’ennesima mostra dedicata agli Impressionisti, a Picasso o a Caravaggio. E tutti ci auguriamo di tornare presto a questa “normalità”, dopo due mesi di lockdown nei quali abbiamo capito quanto l’incontro reale con un’opera d’arte rimanga comunque un’esperienza non surrogabile da nessuna delle tecnologie più all’avanguardia. Affinché l’incontro con l’opera d’arte non lasci però solo un vago ricordo superficiale, ma diventi un prezioso bagaglio da portare con sé per la vita, occorre una sua visione non frettolosa e consapevole, attraversando la storia, così da coniugare la conoscenza con l’emozione. Al riguardo, per i non addetti ai lavori viene in soccorso un agile libro a firma di Valter Curzi (professore ordinario di Storia dell’Arte moderna alla Sapienza Università di Roma) che si propone con delle “STORIE DELL’ARTE per quasi principianti” (Skira, 160 pp., € 19,00). Attraverso uno stile asciutto e divulgativo, e un discreto apparato iconografico, Curzi prende per mano il lettore lungo i cinque capitoli della pubblicazione, insegnandogli a “leggere” un’opera d’arte, a decifrarla partendo dall’analisi del suo contesto, fino all’interpretazione del soggetto rappresentato e al suo stile d’esecuzione.
Il lettore troverà sicuramente appassionante, per esempio, la vicenda del noto dipinto La derelitta (1475 ca.) attribuita a Sandro Botticelli: ovvero la lunga storia di un malinteso. E il problema non è stato solo il nome dell’autore di questa tempera e olio su tavola conservata a Roma, a Palazzo Pallavicini Rospigliosi, che vede da oltre un secolo l’alternarsi del nome di Botticelli a quello del suo allievo Filippino Lippi. Anche il soggetto dell’opera, alquanto misterioso, ha fatto la sua parte, con un “finale a sorpresa” nel XX secolo. Quella che a lungo è stata interpretata come una struggente e misteriosa figura femminile vestita di una semplice tunica, disperata con le mani al volto (appunto una “derelitta”) e circondata di abiti sparsi a terra, ha acquisito nel 1940 grazie a Edgar Wind una nuova identità, cambiando anche genere: Wind riconobbe infatti nella “derelitta” la figura di Mardocheo, un personaggio biblico del Libro di Ester, di cui è possibile nel dipinto in questione scorgere anche la punta della barba. La scoperta di Wind è legata a un colpo di scena che non svelo qui, per non rovinare la scoperta a chi già non lo conoscesse.
All’interno del libro sono raccontate poi, tra le altre, due storie in particolare che già conoscevo bene, ma che mi ha fatto piacere rileggere per i miei personali raffronti con l’attualità virale.
La prima vicenda riguarda Federico da Montefeltro (1422-1482), come ben noto un uomo d’armi, un politico, ma anche un uomo di lettere. Un abbinamento che garantì una straordinaria visione nell’amministrazione e nella gestione “dello stato” con la conseguente prosperità di Urbino e delle terre governate. Un politico, Federico da Montefeltro, che immaginiamo circondato nella sua biblioteca dai novecento codici scritti dai Padri della Chiesa, da storici, poeti, filosofi latini e greci, medici, matematici, giuristi: una raccolta straordinaria oggi conservata alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Oppure lo immaginiamo nel suo studiolo del Palazzo Ducale di Urbino, uno dei luoghi più affascinanti che il Rinascimento ci ha consegnato, poco più di tre metri per quattro, dove l’arte e la conoscenza sono d’ispirazione al pensiero umano elevandolo alle più alte vette. Una figura di politico, quella del Duca di Urbino, che mi sembra oggi tanto irrimediabilmente lontana, quanto sarebbe necessaria, in un’epoca in cui l’arte e la cultura non sono più chiamate a dare il loro determinante contributo al senso e alla direzione dell’azione politica, di una visione di Stato e di Paese divenuta ancora più irrinunciabile nel dopo-pandemia.
Un altro accenno di Curzi all’interno del libro fa riferimento al Grand Tour, quando dall’inizio del Settecento le classi dirigenti europee (poi anche russe e americane) identificavano nel viaggio alla scoperta dell’arte e delle bellezze d’Italia lo strumento più efficace per educare il loro gusto e il loro spirito. Un primato, un onore quello dell’arte e delle nostre bellezze che potrebbe essere ancora il nostro fattore competitivo di sviluppo sostenibile ed equo, soprattutto nello scenario del dopo-Coronavirus. Un primato che va difeso all’esterno dai nostri competitor nel turismo e non solo, che cercano di seppellirlo da due mesi in qua a colpi di fake-news, presentandoci come il “lazzaretto d’Europa”. Un primato da tutelare, però, anche all’interno del Paese per traguardare un orizzonte che possa realmente far rinascere l’Italia, attraverso un uso sistematico degli unici strumenti in grado di generare futuro, quali l’arte e la scienza.