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Casa di bambola è sinonimo di femminismo, di lotta allo stereotipo e al conformismo, al cliché vittoriano che imprigiona in maschere, che sentono invece la necessità di un’evoluzione, di un cambiamento. Il dramma di Ibsen è emblema di questo cambiamento in corso, da pochi compreso e da ancora meno accettato. Vedere dunque una messa in scena di maschere e cliché polverosi e alquanto superati porta all’esasperazione e all’inattendibilità della rappresentazione. Ma partiamo dall’inizio.
Si apre il sipario, quello rosso di velluto, quello classico. Poi un altro di tulle rosa filtra il nostro sguardo. Un personaggio lo tira aprendolo, uscendo di scena. Ed entra Nora di rosa vestita, che ci coglie alle spalle arrivando dalla platea, posizionandosi nella scena come noi posizioneremmo la nostra bambolina, calandola dall’alto. Siamo in un salotto, confettoso e tutto rosa: una poltroncina con tavolino affianco, un grande tavolo centrale, e quattro pareti che delimitano il confine di azione della nostra protagonista. Ecco la casa delle bambole per antonomasia. E Nora, interpretata da Marina Rocco, non è da meno, donna premurosa e attenta, viziata e superficiale, la “lodoletta” del suo amato Torvald. Questo è invece assente e al tempo stesso troppo presente nella realtà della giovane donna, trattandola come un giocattolo più che come una persona. E in questo idillio familiare giunge però l’imprevisto, o meglio sorge dal passato il fantasma di un crimine commesso dalla dolce Nora. La falsificazione di una firma, nascosta al marito, pesa sulla testa come una spada di Damocle, capace di distruggere tutto in poche ore.
La narrazione scorre senza colpi di scena, anche i momenti che dovrebbero essere i significati punti di svolta dell’opera sembrano sempre essere i coronamenti di manipolazioni di basso livello della donna, alterando quello che è il senso del lavoro di Ibsen. Tutto è finzione, nulla risulta credibile agli occhi dello spettatore, che rimane allibito quando a pochi minuti dalla fine si trova ad assistere a un realismo al quale non era stato preparato. Dopo più di due ore nelle quali si assiste all’avvicendarsi di Nora per evitare che il marito scopra la menzogna, avviene un cambiamento repentino e ingiustificato: capisce di vivere come una bambola, azionata da tutti gli uomini della sua vita, incapace di prendere il sopravvento e reagire.
Nulla di tutto questo era stato accennato, niente avrebbe fatto presagire una svolta così epocale. Andrée Ruth Shammah, che firma la regia, ci impone una lettura contro il testo e l’autore, che intrappola i personaggi in cliché e per dar corpo all’aspetto tragico dell’opera è costretta ad inserire in scena un fantasma grottesco, muto. Forse, l’espediente registico più interessante è stato far interpretare i tre personaggi maschili dallo stesso attore, Filippo Timi, facendo vedere le diverse modalità con le quali Nora si interfaccia con questi, con l’intento, ma rimasto solo su carta, di sottolinearne la manipolazione. Dall’altro lato però con questo gioco di ruoli si mette in evidenza la figura di Timi, altrimenti rimasto in disparte: capace di cambiare faccia nel giro di pochi secondi, riesce a trascinare con sé il pubblico per le tre ore di durata dello spettacolo.
Giulia Alonzo
Fino al 24 febbraio 2016
Teatro Franco Parenti di Milano
Casa di Bambola
di Henrik Ibsen
traduzione, adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah
con Filippo Timi, Marina Rocco
con la partecipazione di Mariella Valentini
e con Andrea Soffiantini, Marco De Bella, Angelica Gavinelli, Elena Orsini, Paola Senatore