Non serve certo rievocare lo storico incontro tra John Cage e Merce Cunningham, né le intense influenze che legano quest’ultimo a Stockhausen, Ligeti e Boulez per poter legittimamente parlare delle complesse relazione che legano ricerca musicale e arti dal vivo, musicisti e coreografi.
È indubbio che negli ultimi anni la scena contemporanea stia mostrando di voler fare i conti in maniera diretta con la possibilità di individuare nuovi incontri (o nuove formulazioni) tra musica e scena, basti pensare a due disegni curatoriali relativamente recenti. Il primo, l’edizione di Santarcangelo dei Teatri 2005 che ha visto in cartellone: The Cryonic Chants, il concerto esploso dalla Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio realizzato con il compositore americano Scott Gibbons, l’incontro MK con la formazione musicale Esc per il progetto sostanzasonora, le tappe dichiaratamente “concertistiche” del progetto Ada, cronaca familiare di Fanny & Alexander, Osso di Virgilio Sieni realizzato con il disegno sonoro di Francesco Giomi. L’altro, ma ben più radicale per sguardo e artisti coinvolti, la Biennale Teatro di Venezia diretta da Romeo Castellucci (2005). Valgano per tutti, le aporie e le interrogazioni sollevate dalla commissione che lo stesso Castellucci ha proposto allo svedese Carl Michael von Hausswolff. Sperimentatore del suono già dalla fine degli anni Settanta, creatore di composizioni per nastro magnetico, Hausswolff, alle prese con il tentativo di collocare la sua ricerca di drones e frequenze elettroniche nello spazio teatrale, finisce per inserirle dentro una gabbia stereotipica, una sorta di serio squadernamento dei clichè paradigmatici della rappresentazione: Physical interrogation techniques fa uso di un testo (tratto dal manuale delle regole degli interrogatori sotto tortura in uso nella CIA), di un attore vestito di tutto punto alle prese con l’enfatico resoconto che cammina in platea seguito da un occhio di bue. La sua presenza è intervallata da una serie di spaziature soniche restituite come tracciati architettonici del suono non privi di un intento di suggestione percettiva.
Ma elementi singolari vanno rilevati negli esperimenti a cavallo tra coreografia e ricerca musicale che mostrano un’elementare impaginazione della scena tesa al recupero di una fisicità immediata del gesto scenico del performer (s)combinato con il suono, o del gesto come luogo di una transcodifica di segni, che è innesco di una griglia altamente concettuale di rimandi semiotici non privi di una dimensione sottilmente ironica, per non dire, in qualche modo, politicamente connotata.
Si tratta di lavori dotati di una cifra minimale, penso a Both Sitting Duet o The Quiet Dance, frutti della collaborazione più che decennale tra il compositore Matteo Fargion e il coreografo Jonathan Burrows. Due soli corpi in scena, lo spazio ridotto all’essenziale, nessuna amplificazione. Se Both Sitting Duet è una composizione musicale per il corpo, una personalissima versione muta per mani e braccia della classica partitura For John Cage di Morton Feldman; The Quiet Dance impagina passi, traiettorie lineari e circolari creando formalizzazioni ritmiche sostenute dal suono vocale monocorde. Su questa scia anche il lavoro che ha visto l’incontro tra il coreografo Xavier Le Roy e il compositore tedesco Helmut Lachenmann: Extract of “Mouvement für Lachenmann. Staging of an evening concert”, presentato di recente da Xing e Angelica Festival presso il Teatro Comunale di Casalecchio (Bologna). Due musicisti-performer, seduti l’uno accanto all’altro, non si guardano. Davanti a loro, due spartiti. Le mani danzano, suonano senza strumento, tracciano partiture gestuali precise e simmetriche, le dita definiscono fughe repentine, allontanamenti dal tronco potentemente ritmati, mentre due musicisti dotati di chitarre sono nascosti dietro pannelli neri platealmente disposti per interdire la loro esecuzione agli occhi degli spettatori all’inizio del concerto.
Si genera, così, tra un rapporto complesso di azione e reazione, anticipazione e ripetizione, un cortocircuito tra il codice corporeo e ritmico e i principi dell’ascolto-percezione che dissolvono la mimetica simulazione che lega gesto e suono, ciò che è visto da ciò che è udito. Lo spettatore è costretto ad un reingaggio continuo dell’attenzione, a un riposizionamento dell’ascolto attraverso una precisa istanza formale, tangibile e decisamente fruibile in un qui e ora soggetto all’orizzonte dell’ambiguità percettiva ascoltare/non-ascoltare, sentire/non-sentire, vedere/non-vedere.
piersandra di matteo
[exibart]
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