Sospesa in aria, il petto nudo, le braccia aperte e due pitoni in mano. Immobile, mentre il pubblico prende posto. Dei cani entrano a scarnificare le ossa allineate a terra, e lo spettacolo comincia il suo corso.
Nato sulla scia della dolorosa separazione da Ulay, dopo 12 anni di condivisione sentimentale ed artistica, per esorcizzare il dolore prendendone le dovute distanze (separazione formalizzata dalla performance sulla Muraglia Cinese nel 1987), The Biography Remix racconta la storia di Marina Abramovic attestandosi sul filo di una costante evoluzione.
Pur mantenendo invariata la scena di apertura nel corso del tempo, l’ultima versione introduce quel necessario distacco imputabile all’intervento registico di Michael Laub. Sottratto all’autrice il controllo sul prodotto finale, Laub impone l’egida di un minimalismo estetico che amplifica l’intensità dei contenuti, a loro volta reiterati dallo scambio simbiotico tra teatro e video.
Lo spettacolo si attesta così sullo slittamento di un doppio registro, visivo e temporale, sovrapponendo video originali all’effettiva esecuzione delle performance. Estremamente incisiva è la presenza del figlio di Ulay nel ruolo del padre, e la scelta di attori non professionisti che affiancano gli allievi della Abramovic nel confronto con ritmi ossessivi al limite della resistenza fisica e mentale. Rivivere azioni storiche non è solo un espediente scenico, ma la possibilità di renderle oggetto di una nuova esperienza che trascende l’autrice per veicolarsi ad altri interpreti, ad altri spettatori. Così l’Abramovic si racconta prescindendo da una biografia fine a sé stessa, trasmettendo il concetto che le performance possono appartenere a chiunque sia capace di eseguirle.
Frasi incisive scorrono su un display sintetizzando linearmente le tappe biografiche. Su questo espediente si insedia un secondo slittamento visivo-temporale, in bilico tra la rigida sequenza cronologica delle frasi, una per anno, e l’arbitrarietà dell’azione scenica. Protagonista indiscusso il corpo, strumento comunicativo per eccellenza, mezzo attraverso cui conoscere, canalizzando il dolore e facendone esperienza grazie all’esasperazione di gesti quotidiani e banali. E così la stella di David incisa sulla pancia, lo schiaffeggiamento ritmato, o l’arco teso pericolosamente al cuore, continuano a trasmettere con intensità la forza del dolore, del piacere, della vergogna, di condizioni intimamente legate alla natura umana, alla sua fragilità.
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pur distante da quanto propone la abramovic e dalla body-art debbo riconoscere che lei, l'abramovic, resta vera grande artista che vive sulla propria pelle ciò che propone e con enorme carica creativa..peraltro ben evidenziata/presentata in questo articolo prezioso di matilde martinetti alla quale rivolgo i miei più sentiti auguri di buon lavoro..
arch. roberto matarazzo
l'eccesso di biografia
l'ossessione di sè e del proprio corpo
la necessità di sottoporsi sempre a situazioni-limite ed eclatanti, l'iperbole di riferirsi alla mitologia per dare una cornice ai propri fatti personali....
ma sarà davvero un'artista così importante? non sarà un caso di esibizionismo, di narcisismo inguaribile?
alla base ci ho visto sempre una poco credibile sottocultura new age...
ma si sa che in arte spesso gli atteggiamenti regressivi sono ben considerati, almeno secondo una certa agiografia accomodante per cui gli artisti sono un pò pazzi e fuori dalla realtà...