Delle performance non si può che parlare a evento compiuto. Luogo dell’impermanenza e dell’effimero, la performance si vuole sorella della vita ed esige la presenza. Se non si è stati presenti, se non si è condiviso lo stesso tempo dell’evento, l’opera dimora inesistente. Perché il “residuo” dell’evento si accollerà sempre il carattere del documento, a meno che l’artista stesso non abbia autorizzato una seconda persona a filmare, fotografare o registrarne lo svolgimento per creare un’opera altra, che dell’opera prima fa uso di strumento.
Della performance in questione non esiste testimonianza, a parte le fotografie di proprietà dell’artista. Si è svolta negli spazi suggestivi della Certosa reale di Collegno, nell’ambito della collettiva
Dàimon 2. La mostra ha occupato quelli che furono ambienti monastici prima e poi ricovero per “malati mentali”. Le opere dei 37 artisti sono state collocate tra il Museo della Città di Collegno, l’Aula Hospitalis e la Chiesa della Santissima Annunziata, in un percorso che dalla neutralità bianca dei muri contemporanei del museo si dipana fino a quelli con stucchi dorati e fatiscenti del tipico barocco piemontese della cappelletta. Ed qui, oltre il chiostro e le arcate dei portici vagamente sinistri, che si è svolta la performance
Struttura 01 di
Anna Maria Tina (Meinz, 1973; vive a Bologna).
L’evento, inserito all’interno del tema piuttosto banale -nel senso di convenzionale, privo di significato particolare se estrapolato da un contesto specifico- degli “opposti nell’invisibile” (“
bene e male, angeli e demoni, creazione e apocalisse, concepimento e morte”, recita la presentazione alla mostra), ha il merito di portare alla luce un dialogo privo di retorica fra i muri intrisi di storia della cappella e i pochissimi oggetti che di quella performance sono gli elementi costitutivi: una struttura in ferro, onde sonore quasi mono-tono e il corpo e la presenza di Anna Maria Tina.
Struttura 01 è il titolo della pesante lastra composta da tubi pieni in ferro (oltre trenta chili) e dell’evento stesso, durato quasi un’ora, ben al di là delle più rosee aspettative dell’artista. Vestita di una semplice tunica argentata, i capelli biondi raccolti in trecce, Tina ha dato inizio alla performance posizionandosi nel varco della balconata, immediatamente davanti all’altare. Ha allora indossato la pesante struttura sulla schiena per poi, ferma ma non immobile, rimanere così finché il suo corpo l’ha sostenuta.
Il paradossale contrasto creato dalla grazia espressa dal suo volto e dallo sforzo appena visibile nel leggero fremito delle membra costituiva l’eco reale del rinvio inevitabile ad ali rigide, statiche, prigioniere della forza di gravità della struttura posta sulla schiena. La posizione significativa scelta dall’artista, né al di qua né al di là del transetto, impediva di propendere (se mai ce ne fosse stato bisogno) per l’una o l’altra identificazione: vestale del sacro o fedele in meditazione. Perché ciò che la sollecita, e che muove la sua ricerca da diversi anni, non è tanto la simbologia scaturita dall’universo culturale, ma l’indagine sulla percezione del reale nel rapporto sempre vivo con la propria corporeità, “
strumento di comprensione e di misura”. La struttura è dunque un terzo canone che va ad aggiungersi al corpo umano e al corpo ospitante (la chiesa): “
I tondini di ferro per cemento armato sono elementi nascosti ma strutturali degli edifici”, afferma l’artista, “
perciò ho cercato d’inserirmi nel contesto della chiesa barocca della Certosa in un rapporto di relazione e di aggiunta, quasi fossi uno degli elementi che la costituiscono, senza compiere nessun tipo di azione visibile”.
Tuttavia, se per Anna Maria è il tempo di resistenza la risultante di questo rapporto corpo-struttura-luogo (io sono nel momento in cui sento il mio essere in vita come una struttura tra le strutture), per lo spettatore i termini cambiano. È piuttosto il tempo di contemplazione a esser sollecitato dalla performance: una dimensione in cui si perde la concezione di sé e del reale. Il mondo circostante si amplifica nel dialogo tra elementi minuscoli (il respiro nel petto che pare provocare un leggero spostamento di ombra e luce), di cui si è parte quanto l’aria che circola.
Per ciò i cinquanta minuti di performance di Anna Maria Tina sono il momento più alto del tema sugli “opposti nell’invisibile” proposto dalla collettiva.