Di stringente attualità, in questi giorni di forsennata e isterica polemica circa la disponibilità delle sorti del nostro umano contenitore, lo spettacolo giunge tempestivo al Pim Spazio Scenico, piccolo ma coraggioso spazio teatrale alla periferia di Milano, chiuso in un complesso post-industriale, in cui brulica la vita artistica e artigianale della grande città.
Il lavoro della
Compagnia Città di Ebla, che sin dal nome evoca uno scavo aperto sulle vestigia del passato e del presente teatrale, affronta il tema spinoso della malattia, deprivata della sua simbologia arcaica. Frammenti di una pentalogia intitolata
Pharmacos, dall’ambivalente etimologia greca “male/rimedio”, il movimento III
Orizzonti del campo (video) e il movimento II
Atto barbaro (azione scenica) lambiscono il tema del corpo medico e del corpo sacrificale, sotto la direzione artistica e regia di
Claudio Angelini.
Il video, con reminiscenze cinematografiche a
La notte dei morti viventi di romeriana memoria, graffiante nella sua resa filmica e nel suo scarno bianco e nero, ispirato dal saggio
Homo Sacer del filosofo Giorgio Agamben, è un affresco contemporaneo del corpo-farmaco, che indugia sulla trasposizione semantica tra medicinale/oggetto di mercato, corpo umano/merce da scaffale. Assomiglianti a tanti zombie, i corpi privi di coscienza affollano gli spazi spersonalizzati di un supermercato in un’atmosfera irreale, sottolineata dalla musica minimalista di
Elicheinfunzione, ma non senza redenzione finale, quando il corpo della performer dalla tela di lattice che separa il magazzino dallo spazio di vendita si avventura in un luogo umano e reale, la Scalinata Nuti di Cesena.
Altro lattice e altra plastica, materiale copioso nei luoghi di cura moderni, troviamo sul palco: una sala operatoria (di fruizione più efficace sarebbe stata la disposizione del pubblico sui quattro lati dello spazio scenico) che accoglie, in scena, tre “protagonisti” atrofizzati: il corpo di una ballerina (o di quel che ne resta dopo un incidente) attaccata a tubi di plastica che la tengono in vita, la coscienza collettiva/opinione pubblica anestetizzata da un talk-show radiofonico sulla malattia e, infine, il personale sanitario rappresentato da un’asettica infermiera (
Elisa Gandini) che ha cura di rendere l’ambiente il più possibile poco umano.
Il percorso della protagonista, la performer
Valentina Bravetti, si fa accidentato, perché non percorre un filo narrativo ma un filo suggestivo di ricordi e memorie di vita vissuta. Pur nell’incipit liricamente intenso di una danza sospesa nell’aria grazie ai tubi di plastica che forniscono la linfa vitale, la performance si fa oscura e indecifrabile nella successione di quadri staccati tra loro da black-out scenici e sonori e nel ripercorrere la vicenda personale della paziente che, in un crescendo degno di un film horror, dopo aver indossato un paio di scarpe da punta che calano dall’alto, raggiunge il climax quando partorisce un uccello, poi subito bruciato con un lanciafiamme.
Il corpo della ballerina, metafora massima del “corpus teatrale” sano e vigoroso, non acquista alcun senso del divino e resta sospesa tra un manifesto politico-drammaturgico dichiarato ma non approfondito e un’atmosfera onirica vaga.