Dal 1979 la
Fura dels Baus ha abituato il suo pubblico al dislocamento perpetuo, al coinvolgimento totale, al recupero del senso del teatro come rito dionisiaco, alle incursioni delle arti visive su una scena sfondata in ogni direzione, reinventata in spazi non convenzionali.
Il leggendario
Accions aveva inaugurato, nel 1983, un nuovo linguaggio teatrale contaminato con la videoarte, l’installazione e la performance. L’uso sapiente e inedito del corpo dell’attore, triturato dentro la macchina scenica anche grazie alle tecnologie, usate in modo invasivo e totalizzante, avevano innalzato il “linguaggio furero” allo status di nuova koinè scenica il cui stile, fondato sulla creazione collettiva, allargava il campo d’azione, chiamando in causa la letteratura come fonte d’ispirazione e attraversando i generi nel teatro, nell’opera e nel cinema. Nel 2006 erano state le
Metamorphosis, ispirate a Kafka, a fornire il materiale drammaturgico, così come nel 2007
Imperuim portava in scena una grottesca satira del capitalismo.
Con
Boris Godunov, il regista
Alex Ollè torna dentro lo spazio angusto del teatro requisito dal terrore e smette il gigantismo di cui molte produzioni si sono alimentate. “
Il pubblico vive un sequestro di un’ora e cinquanta minuti, promette Ollè. L’urgenza è quella di riflettere sul potere, sulla sua genesi e sulla logica che lo alimenta in contrapposizione con l’etica e con la verità. Il dramma di Aleksandr Puskin narra, infatti, di un usurpatore del trono degli Zar, Godunov, che viene spodestato da un millantatore che dichiara d’essere il legittimo erede la trono, quel Dmitrij figlio di Ivan il Terribile che Godunov ha fatto barbaramente assassinare all’età di sette anni. La storia della Russia del cosiddetto “periodo dei Torbidi” (a inizio Seicento e prima dell’ascesa dei Romanov), s’intreccia sulla scena furera con il terrorismo che la guerra cecena produce per la prima volta in teatro.
Ottocentocinquanta persone furono, allora, sequestrate per tre giorni, prima che l’ex Kgb irrompesse con le armi e il letale gas fentany, provocando quasi duecento morti e feriti gravi. In quei giorni i palchi divennero latrine e il teatro fu imbottito d’esplosivo. Quaranta terroristi giravano vestiti in mimetica e passamontagna, con cinture di tritolo. Tra di loro vi erano anche vedove di separatisti uccisi in Cecenia e gettati in fosse comuni. Agli ostaggi fu permesso di telefonare ai propri cari per testimoniare il terrore e il comandante in capo rilasciò perfino un’intervista.
Ollè ricostruisce il tutto con dovizia di particolari, intrecciandovi parti del Godunov puskiniano. Ma lo spettacolo non decolla. Sono pochi i momenti di vera tensione. Il realismo diventa un boomerang e l’immedesimazione non scatta. Il pregio è invece di stampo più classico: lo spettacolo è ben scritto e affronta la natura schizofrenica del terrorismo, esponendo le contrapposte e contraddittorie posizioni dei singoli separatisti. Del resto se Mohamed Atta, il capo commando dell’11 settembre, ha passato l’estate del 2001 in viaggi a Las Vegas per bere alcolici, giocare d’azzardo e pagare spogliarelliste, significa che non sempre i moventi del terrore sono quelli che si dichiarano. E spesso finiscono per rafforzare oltremisura il potere che li contrasta, come ha testimoniato Abu Ghraib.
Ollè coglie queste verità, ma nel farlo snatura la Fura. “
L’interazione con gli attori è minima… Certo che se dici Fura e terrorismo, allora la gente si crea un’aspettativa chiara. Ma non è questo il caso”, dice.