Categorie: arteatro

arteatro_contaminazioni | Jan Fabre

di - 18 Maggio 2010

In theatre, like in love, the subject is disappearence, scrive il teorico delle
performing arts Herb Blau.
Il teatro è effimero, perituro, lontano da
qualunque forma di catalogazione e archiviazione. Un mortifero patto faustiano
sta alla base della rappresentazione scenica: la conoscenza si manifesta
nell’atto decisionale e consapevole della morte, in un presente che fugge se
stesso e che corre verso il suicidio della messa in scena.
Arte
totale, dicotomia vita/morte sono la base di molte opere del controverso ed
eccentrico artista Jan Fabre
che, al festival Fabbrica Europa 2010 di Firenze presenta la coreografia,
creata per la performer Ivana Jozic,
Another sleepy dusty delta day.
Ossessione dei maggiori esponenti dell’arte contemporanea, il tema della morte
si insidia nell’estetica e nella cifra stilistica di Jan Fabre come elemento
provocatorio funzionale al dissolvimento di qualunque forma di retorica, come
sguardo autobiografico e autoreferenziale, ma anche come base per una
riflessione puramente meta-artistica e meta-teatrale. Riflessione
rintracciabile già nell’utilizzo di insetti e animali impagliati in molte delle
sue istallazioni per le quali animalisti e puritani gridano da tempo allo
scandalo. Sulla scena teatrale, proprio questi elementi risultano
radicalizzati, probabilmente poiché ospitati nell’unico luogo in cui la linea
diegetica dell’opera sconfina irrimediabilmente nella vita reale.
Sulla
scena, mucchi di carbone formano piccole montagne di pietra intorno alle quali
trenini elettrici ancorati a binari di plastica conducono il loro logorante
percorso circolare. Sospese a mezz’aria, gabbiette metalliche ospitano canarini
gialli che osservano dall’alto la lurida terra su cui si svolge la tragedia di Another
sleepy dusty delta day
. Uno
spettacolo destabilizzante e scioccante, non per l’utilizzo scenico degli
uccellini – come avrebbero voluto gli animalisti e i furbi politici accorsi a
protestare durante il festival – ma per una sanissima cattiveria che lo
percorre interamente dall’incipit sino alla fine.

Jan
Fabre parla di eutanasia, suicidio e amore traendo ispirazione dalla canzone
del ‘67, della statunitense Bobbie Gentry, Ode to Billy Joe, dai cui estrae il titolo dello spettacolo. I
versi del testo musicale, trattando il tema del suicidio in un ambiente di
campagna americano,
assomigliano vagamente alle Southern Gothic Novel, sottogenere americano del
racconto gotico permeato da elementi grotteschi, bigottismo razziale ed egoismo
moralista. Today Billy Joe MacAllister jumped off
the Tallahatchie Bridge
”, canta la Jozic in scena, poi, avvicinatasi a un
microfono, sfila una lettera dal suo reggiseno e inizia a leggere il testo
epistolare scritto dallo stesso Fabre.
Così
l’artista sputa addosso a un’umanità bigotta e insulsa che spreca parole per
cercare la libertà all’interno della vita e che invece è sottomessa alla
triviale capacità di dimenticare. Meglio suicidarsi
che subire le umiliazioni del decadimento fisico
”, legge
Jozic, mentre sul palco il tempo sembra pesantemente scandito dal moto perpetuo
dei trenini elettrici e dall’immobilità dei canarini gialli chiusi nella loro
gabbia. Poi le parole scivolano sull’immagine di un padre martoriato da cinque
infarti e di una madre soffocata lentamente da un tumore ai polmoni, proprio
come accaduto ai genitori di Fabre, che qui, con eccellente egocentrismo,
scivola nell’autobiografia e lascia emergere un urlo disperato e violento. Come
sconvolta dalla lettera, la performer si abbandona a una danza sadica
costituita da spasmi, tremolii ed elementi estremamente grotteschi. Dai mucchi
di carbone estrae delle bottiglie di birra, beve, poi si appoggia sui binari
come a voler essere investita dai piccoli trenini.

Per
favore. Nessuna condanna. La mia morte non è un misfatto
”, recitano le parole della lettera. La performer
tinge il suo corpo di nero e il campo di cotone che fa da sfondo alla canzone
di Gentry appare improvvisamente trucidato da una violenza istintiva e
animalesca con la quale Jozic si scaglia contro le montagne di carbone,
afferrandone i pezzi, lanciandoli, distruggendo i treni e le montagne. Poi,
come gatta, afferra una gabbietta, la apre ed estrae un piccolo canarino (di
peluche) per sentire il rumore che fa una bottiglia di birra sbattuta sopra la
sua piccola testolina. Le gabbie vengono scosse, attraversate da raggi di luce,
mentre i canarini cercano per un attimo una nuova stabilità. E ogni piccolo
frammento di innocenza, ogni simbolo della gioventù raccontata da Fabre si
dissolve nell’insensatezza della quotidianità e in una partitura musicale
costituita da note jazz.
Io
credo a questa leggenda che racconta l’amore
”, dice Jozic; poi, leggendo le ultime parole della lettera: “Desidero
già da tempo questa rappresentazione estrema e tutto il teatro non è forse
preparazione alla morte?
”. Ucciso
il presente della performance non rimangono altro che le spoglie di una
struggente istallazione: treni distrutti, montagne crollate, gabbiette sospese
a mezz’aria e una bottiglia di birra, al centro del palco, con il canarino
(finto) dal collo spezzato.

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matteo antonaci

la rubrica arteatro è diretta da piersandra di matteo


dal
12 al 13 maggio 2010
Jan Fabre – Another Sleepy Dusty Delta Day
Stazione
Leopolda
Viale Fratelli Rosselli, 5 – 50144 Firenze
Info:
www.ffeac.org

[exibart]


Visualizza commenti

  • ERRATA CORRIGE
    La performer Ivana Jozic, di cui si parla nell'articolo, è stata sostituita da Jan Fabre nel 2010, quando ha deciso di rimodellare Another Sleepy Dusty Delta Day sulla fisicità della performer greca Artemis Stavridi. Partendo dalla personalità di questa talentuosa artista, Jan Fabre ha rimontato la coreografia presentata a Fabbrica Europa.
    L'autore chiede scusa per l'imprecisione.

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