Tutta l’esperienza della performer norvegese Mette Edvardsen vive nel dettaglio. De-teil, tagliare da un intero, lo spazio. Non per restituire la frammentazione, né per lasciare l’eco metonimica di un tutto in absentia. La sua è piuttosto una strategia per scoprire la presenza. Così sin dai primi esperimenti; così nel video Stills (2002). Il rapporto tra l’azione fissata in pose di pura statica presenza e il contesto enviromentale delle spiagge finlandesi in cui si cala, appare un’intraducibile sovrapposizione di immagine in movimento ed esposizione fotografica. Lo scarto tra l’apparente immobilità dei corpi e la mobilità della natura, il fluire dell’acqua, l’ardere del fuoco, produce un’inquietudine percettiva che opera in direzione di una tensione dello sguardo. I corpi, ora nudi, ora semplici figure colte in istantanee, si rendono più plastici; e la natura più reale. Questi illusori digital collè rimandano a un’ambigua spazialità, non praticabile se non a patto di mostrare una possibilità in cui il corpo è ricondotto al suo grado zero, quello minimo dello stare. Allora tagliare, ma anche in-tagliare. È lo sfondamento prospettico e minimale, ottenuto tracciando un angolo di nastro isolante nero su una parete bianca in cui pochi oggetti -due sedie e una pianta da interno- nella performance Private collection (2002), interagiscono con il corpo che si fa misurazione dello spazio. L’istanza analitica si converte nell’esplorazione infantile della relazione tra le cose.
Se i suoi lavori sono tutti modi di det-tagliare, di focalizzarsi sul limite tra presenza e assenza, stasi e movimento, sfondo e primo piano, sempre dentro una cornice e la sua possibile negazione, questo è ancora più vero in Time will show (detail), performance che Mette Edvardsen ha presentato al Raum di Bologna per Living Room, rassegna di eventi performativi per spazio ridotto e a contatto diretto con gli spettatori a cura di Silvia Fanti.
Open stage lights. Un monitor in posizione laterale e avanzata, la Edvarsen in maglietta gialla e pantaloni neri. Poi un nastro adesivo, una vecchia spugna e una scatola di cartone. Attraversamenti, traiettorie nello spazio, scivolamenti sui muri. Poi pose. Lo spazio, spesso vuoto, è tutto tenuto ad un livello di semplice presentazione.
Se il corpo sembra duplicare le azioni video, viene presto fugata l’impressione di una registrazione in presa diretta. La performance non si consuma nell’anticipazione o nel ritardo rispetto all’immagine su monitor. L’errore non è contemplato. La scrittura dello spazio si articola attraverso una calcolatissima successione di azioni scandite su una precisa time-line che ricostruisce alla rovescia quelle del video. La presenza, scomposta minuziosamente, viene rimontata sull’asse di una successione rovesciata della sintassi gestuale e restituita all’interno di una temporalità normale o solo parzialmente rallentata, in cui il corpo è capace di assorbire la qualità lievemente oscillante del rewind.
Il risultato è un’elasticità dello spazio. Il perimetro è continuamente trasgredito, così come l’inquadratura è ecceduta fino a un acme, uno switch point in cui l’immagine video e l’azione reale letteralmente si specchiano. Si è di fronte alla presenza di una soglia in cui il tempo e il movimento, nettamente al di sotto o al di sopra del percepibile, creano lo spazio, una sua possibile intima storia.
Il video, nel suo funzionamento simulativo dell’azione reale (e viceversa), diventa il centro di una creazione tutt’altro che virtuale. Richiama fortemente la presenza di un corpo che occupa, abita, costruisce, indaga le possibilità dell’ambiente in una progressione di momenti, azioni semplici e configurazioni spaziali che disegnano un dispositivo abitativo come creazione di una propria, intima topologia capace di rendere lo spazio familiare e sconosciuto. I movimenti, non puri gesti formali, costruiscono un dialogo con l’ambiente interfacciato, sono azioni reali di uno spazio dato, eppure sempre in via di costruirsi.
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piersandra di matteo
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