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01
dicembre 2009
arteatro_contaminazioni Muta Imago
arteatro
Al Teatro Palladium, per Romaeuropa Festival, Muta Imago presenta Madeleine, l’ultimo capitolo della trilogia sulla memoria. Tra citazioni cinematografiche e letterarie, il ricordo si tramuta in incubo...
Debutta a Romaeuropa Festival il nuovo spettacolo di Muta
Imago, Madeleine, tappa conclusiva di un percorso
sulla memoria intrapreso a partire da (a + b) alla terza e sviluppato attraverso il
successivo Lev.
Se nei primi due lavori l’artigianalità e l’utilizzo di
strumenti scenici erano tesi a proiettare la fisicità degli oggetti nella
dimensione irreale del sogno, determinando la cifra stilistica di un gruppo
capace di costruire mondi irrazionali punteggiati da drammaturgie archetipiche,
favole immediatamente fruibili e immaginario pop, con Madeleine Muta Imago sembra voler
distruggere tutte le certezze.
Innanzitutto eliminando definitivamente ogni residuo dei
racconti precedenti. Se a e b erano due amanti separati inevitabilmente dal sopraggiungere
della guerra, e se Lev era un uomo che tentava disperatamente di riappropriarsi delle
immagini delle donne che aveva amato prima dei conflitti bellici, Madeleine è una donna che agisce nei
territori della memoria ma senza nessun fine. Probabilmente un personaggio
vittima dei suoi stessi ricordi, imprecisi, inafferrabili, sparsi senza nessun
ordine logico. Un flusso di coscienza che trova la sua foce nel titolo stesso
dello spettacolo: Madeleine è la protagonista de La donna che visse due
volte (Vertigo) di Alfred Hitchcock.
In scena, il gruppo ricostruisce le dinamiche thriller del
film, scivolando nei sospiri inquietanti e nel buio pesto di certe pellicole
horror (da Sam Raimi a Pupi Avati), quindi recuperando nuovamente quel senso di vertigine che solo
Hitchcock sa creare.
Madeleine dorme nella sua stanza. Sul palco dei pannelli
scorrevoli mostrano la sua ombra che precipita in macchie d’azzurro create da
giochi di luce, mentre in alto degli specchi riflettono il suo corpo nudo, che
appare come una chiazza color carne, un corpo dipinto da Bacon. Alcune presenze disturbano il
suo sonno: i pannelli scorrevoli, come verande, si aprono. Il vento soffia,
Madeleine guarda il paesaggio invisibile che si staglia dinanzi ai suoi occhi,
poi chiude ogni finestra, rientra a casa. Un uomo, come un fantasma, la segue,
la spia, l’accarezza. Lei cerca di afferrarlo, non ci riesce. Altri specchi
riflettono la sua immagine, indietreggiano in continui giochi prospettici, che
ribaltano il punto di vista – interno/esterno della stanza -, rielaborano i
movimenti e le dinamiche dei raggi di luce.
Poi Madeleine cambia volto – due sono le attrici che
interpretano il personaggio – mettendo in scena la sua ambiguità, la sua doppia
vita, la confusione frenetica dei ricordi, della memoria. Tutto è statico, il
tempo sembra non passare.
Muta Imago sottrae ogni forma di scrittura drammaturgica,
azzerando il racconto, lasciandolo assorbire nella costruzione scenica. La
macchina artigianale non si proietta più in una dimensione sognante, fa a meno
della sua poesia per giungere alla pura spettacolarizzazione. Non più una
perfetta stratificazione e ibridazione di linguaggi differenti, ma la
meticolosa orchestrazione degli strumenti scenici, guidata dall’unico vettore
della meraviglia visiva. Un buco nero, una vertigine, in cui ogni cosa
precipita.
In scena, aleggia l’atmosfera di un film rimasto
incompiuto.
Imago, Madeleine, tappa conclusiva di un percorso
sulla memoria intrapreso a partire da (a + b) alla terza e sviluppato attraverso il
successivo Lev.
Se nei primi due lavori l’artigianalità e l’utilizzo di
strumenti scenici erano tesi a proiettare la fisicità degli oggetti nella
dimensione irreale del sogno, determinando la cifra stilistica di un gruppo
capace di costruire mondi irrazionali punteggiati da drammaturgie archetipiche,
favole immediatamente fruibili e immaginario pop, con Madeleine Muta Imago sembra voler
distruggere tutte le certezze.
Innanzitutto eliminando definitivamente ogni residuo dei
racconti precedenti. Se a e b erano due amanti separati inevitabilmente dal sopraggiungere
della guerra, e se Lev era un uomo che tentava disperatamente di riappropriarsi delle
immagini delle donne che aveva amato prima dei conflitti bellici, Madeleine è una donna che agisce nei
territori della memoria ma senza nessun fine. Probabilmente un personaggio
vittima dei suoi stessi ricordi, imprecisi, inafferrabili, sparsi senza nessun
ordine logico. Un flusso di coscienza che trova la sua foce nel titolo stesso
dello spettacolo: Madeleine è la protagonista de La donna che visse due
volte (Vertigo) di Alfred Hitchcock.
In scena, il gruppo ricostruisce le dinamiche thriller del
film, scivolando nei sospiri inquietanti e nel buio pesto di certe pellicole
horror (da Sam Raimi a Pupi Avati), quindi recuperando nuovamente quel senso di vertigine che solo
Hitchcock sa creare.
Madeleine dorme nella sua stanza. Sul palco dei pannelli
scorrevoli mostrano la sua ombra che precipita in macchie d’azzurro create da
giochi di luce, mentre in alto degli specchi riflettono il suo corpo nudo, che
appare come una chiazza color carne, un corpo dipinto da Bacon. Alcune presenze disturbano il
suo sonno: i pannelli scorrevoli, come verande, si aprono. Il vento soffia,
Madeleine guarda il paesaggio invisibile che si staglia dinanzi ai suoi occhi,
poi chiude ogni finestra, rientra a casa. Un uomo, come un fantasma, la segue,
la spia, l’accarezza. Lei cerca di afferrarlo, non ci riesce. Altri specchi
riflettono la sua immagine, indietreggiano in continui giochi prospettici, che
ribaltano il punto di vista – interno/esterno della stanza -, rielaborano i
movimenti e le dinamiche dei raggi di luce.
Poi Madeleine cambia volto – due sono le attrici che
interpretano il personaggio – mettendo in scena la sua ambiguità, la sua doppia
vita, la confusione frenetica dei ricordi, della memoria. Tutto è statico, il
tempo sembra non passare.
Muta Imago sottrae ogni forma di scrittura drammaturgica,
azzerando il racconto, lasciandolo assorbire nella costruzione scenica. La
macchina artigianale non si proietta più in una dimensione sognante, fa a meno
della sua poesia per giungere alla pura spettacolarizzazione. Non più una
perfetta stratificazione e ibridazione di linguaggi differenti, ma la
meticolosa orchestrazione degli strumenti scenici, guidata dall’unico vettore
della meraviglia visiva. Un buco nero, una vertigine, in cui ogni cosa
precipita.
In scena, aleggia l’atmosfera di un film rimasto
incompiuto.
matteo antonaci
spettacolo visto il 21 novembre 2009
la rubrica arteatro è diretta da piersandra
di matteo
dal 19 al 22 novembre 2009
Romaeuropa Festival 2009 – Muta Imago
Teatro Palladium
Piazza Bartolomeo Romano, 8 (zona Garbatella) – 00154 Roma
Info: www.romaeuropa.net
[exibart]