La vita come uno snuff movie, un gioco al tormento
che si conclude con la morte della vittima. Solo che sulla scena di
Macadamia
Nut Brittle i
carnefici passano volentieri gli strumenti di tortura alle vittime, o li
rivolgono verso se stessi, e si guardano allo specchio smarriti nell’ambiguità
del proprio ruolo.
Lo spettacolo di
ricci/forte suggerisce un omaggio
all’immaginario letterario di Dennis Cooper (il romanziere cantore di un
pianeta giovanile sempre ai margini), ma variegato agli aromi dei gusti
nostrani (per rimanere nell’ambito evocato dal titolo: un gusto della catena
internazionale di gelaterie Haagen Dasz). Il mondo di ricci/forte, in realtà,
non avverte il bisogno di riconoscere genealogie e ascendenze, soprattutto per
quanto riguarda la scena del teatro italiano; e se nelle dichiarazioni degli
autori la rottura con le forme della ricerca degli anni ‘90 appare anche un po’
troppo disinvolta (a costo di apparire giovanilistica), negli esiti si compone –
o meglio, si decompone – tutta la sanguinolenta fragranza del qui e ora:
ricci/forte aderiscono al presente senza cercare di riprodurlo e lo mandano in
scena quasi senza mediazioni, adottando una costruzione drammaturgica
frammentata in performance, a solo lirici, gang bang e siparietti drag queen.
Scorre lo spettacolo, dimenticando dietro di sé una
scia di sciroppo che sembra sangue, di muffin in briciole e di umori diversi,
che all’apparenza lattiginosi di sudore e piacere rivelano invece la propria
natura di lacrime e solitudine. Scorre lo spettacolo, con il suo coro di voci
piccolo borghesi, espressione di un universo che comprende le aspirazioni
(immancabilmente frustrate), le paure e le tensioni di una fascia anagrafica
che stenta a invecchiare.
Gli attori sono tutti destinati ad avere per sempre
meno di trent’anni, a mangiare gelato come nei telefilm Usa degli anni ‘80 e a
non oltrepassare mai i confini di una qualsiasi camera d’attesa in cui
aspettano (beckettianamente, non si sa bene cosa), e in questa attesa trovano
giustificazione al proprio essere incompiuti. Le storie dei quattro attori
(impossibile riferirsi a loro come “personaggi”) si sovrappongono e si smistano
continuamente, raccontando tutti il dramma evergreen di un passaggio all’età
adulta che non è avvenuto fino in fondo, con tutto quel che ne consegue.
È come se Hedda Gabler si ispirasse ai personaggi
del Grande Fratello, o se Nina de
Il gabbiano fosse impazzita guardando
telenovelas: la posta in gioco sembra ridursi al desiderio di una stabilità in
coppia
more uxorio,
con l’illusione che una qualsiasi declinazione del matrimonio (disponibile
nella versione tradizionale, in quella
bonheur dans l’esclavage, in quella gay moderni, entrambi
versatili, eccetera) garantisca la felicità.
Finisce a un certo punto
Macadamia Nut Brittle, ma non si conclude, e consegna
una istantanea che riunisce in uno stesso polimorfo sistema confessionale le
divinità della pay tv e i feticci del
wellness globalizzato. Il gelato chimico
Haagen Dasz, il cui gusto è identico a tutte le latitudini, semplifica la
reificazione delle emozioni che viene messa in scena da ricci/forte, dove
l’unica consolazione, e l’unico modo per liberarsi delle pie illusioni e di
Lisa Simpson, sembra essere la cattiveria.