È la svolta. Diviene direttore del Balletto di Francoforte
con il quale, per vent’anni esatti, realizza spettacoli gioiello come Artifact, Enemy in the figure o One
flat thing, Reproduced, ancora oggi acclamati dalla critica come capolavori
senza tempo. Alla base del lavoro che Forsythe svolge in Germania c’è una
puntigliosa indagine sul codice classico che è scomposto, sezionato, ripulito di
tutto ciò che non è, a suo avviso, più necessario. Ne scaturisce una danza
veloce, estrema, frutto di una geometria corporea interna, piuttosto che di
regole spaziali accademicamente imposte. Un vero e proprio balletto contemporaneo, felicemente spiegato dallo stesso Forsythe
nel cd-progetto Improvisation
technologies.
Concluso il connubio con il Balletto di Francoforte, nasce
una compagnia dalla struttura più agile, la Forsythe Company, con la quale il
coreografo sviluppa un lavoro creativo fatto di incursioni in ambienti e
situazioni inusuali, tra performance,
installazioni, film e media educativi.
Oggi, superati i sessant’anni, un Leone d’Oro alla carriera appena assegnato,
Forsythe prosegue il suo lavoro di sperimentazione con la Forsythe Company, mentre
le coreografie precedenti sono entrate a far parte del repertorio di tutte le
principali compagnie di balletto del mondo.
Tra queste non manca il Corpo di Ballo del Teatro alla
Scala di Milano che proprio al maestro d’oltreoceano ha dedicato dal 6 al 23
settembre una piccola retrospettiva, anticipata da un’interessante conferenza
tenuta da Marinella Guatterini in compagnia di Noah Gelber, storico danzatore di Forsythe, che ha svelato,
mostrato e raccontato aneddoti e peculiarità della sua esperienza con il
coreografo. Capita così di poter vedere Artifact
Suite, Hermann Schmermann e In the
Middle, Somewhat elevated in un’unica serata, interpretati da piccole e
grandi stelle del balletto che si alternano in scena.
Apre la serata Artifact
Suite in cui protagonista è la danza alla maniera di Forsythe. Ecco quindi
il corpo di ballo ai lati della scena a incorniciare le coppie di solisti e a “tener
il tempo” delle note di Bach battendo le mani, mentre repentine e ripetute
cadute del sipario scandiscono i diversi momenti e nascondono tracce della
coreografia. Non c’è trama, ma la storia la raccontano i corpi in scena e quei
movimenti che, come ben s’intuisce, hanno rivoluzionato un codice che non
poteva certo contemplare spostamenti e posizioni nello spazio apparentemente
casuali
È invece un omaggio a George Balanchine, Herman Schmerman, idealmente diviso in due parti tra un quintetto iniziale e un duo
finale d’intensa bellezza (e notevole impegno atletico) che vale, da solo, la
visione dello spettacolo. I due interpreti in scena paiono amalgamarsi in un
tutt’uno perfetto e la danza stessa va in cortocircuito: movimenti esasperati,
velocissimi, punti d’appoggio portati all’estremo e i canonici ruoli
maschile-femminile continuamente ribaltati. Come nel finale, quando i costumi
di Gianni Versace mettono entrambi i ballerini in gonnella gialla e il partner
maschile sembra emulare il comportamento femminile per un finale davvero
indimenticabile.
Anche In the Middle,
Somewhat Elevated non ha trama: sul palcoscenico spoglio danzano in tutto
nove interpreti in calzamaglie spezzate e lucenti e la coreografia pare proprio
un’esplorazione di tutte le combinazioni possibili: assoli, passi a due,
quartetti, scene corali.
Spicca certo Roberto Bolle, aduso alle dinamiche forsytheiane,
che ben interpreta un interessante assolo in cui la coreografia ci spiazza con
interruzioni, ripetizioni e trovate insolite. Immancabili i prolungati applausi
finali per una serata in cui tutto in corpo di ballo ha fatto una degna figura
nella prova con un coreografo non certo facile.
sara prandoni
la rubrica arteatro è
diretta da piersandra di matteo
[exibart]
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