Il Mibac ha finalmente deciso di regalare all’Italia un Festival di teatro di tutto rispetto, sul modello di Avignone -che i cugini francesi si godono dal 1947- o di Edimburgo. Napoli, sede temporanea fino al 2009, ha offerto un succulento anticipo tardo-estivo, tirando fuori le anteprime dei teatri cittadini, gli incantatori di serpenti indiani, lo straziante
Chiòve, traduzione in napoletano dall’opera del catalano
Pau Miró, il
Sogno di una notte di mezza estate di
Ostermeier e Macras, l’
Ubu Roi fra Scampia e Senegal di
Martinelli e altro ancora.
Il versante artistico non ha mancato all’appello. Al Madre hanno avuto luogo due eventi di primissimo piano: il video
Journey to the Moon & 9 Drawings for Projection di
William Kentridge (Johannesburg, 1955), musicato dal compositore
Philip Miller in una nuova versione in prima europea, e i
Voom Portraits di
Robert Wilson (Waco, Texas, 1941), ritratti ad alta tecnologia video di celebrità e gente ordinaria. Due alternative divergenti di sperimentare il medium filmico: la ricerca di Wilson è permeata dalla convinzione che dai nuovi mezzi di riproduzione tecnologici l’artista possa trarre nuova linfa creativa; quella di Kentridge pone le premesse per una “reinvenzione” del medium, ripartendo dal tradizionale disegno a carboncino.
Kentridge non altera il classico procedimento del film d’animazione -la successione di una serie di immagini- ma lo rinnova radicalmente, filmando a più riprese lo stesso disegno sottoposto di volta in volta a continue modifiche e cancellature. Una sequenza, quindi, piuttosto che evolvere da un fotogramma a un altro come in un normale audiovisivo, è un divenire inestricabile che rimane immagine, un magma corposo di materia e segni che si rigenera mostruosamente. Poiché le tracce delle cancellature si sedimentano nei disegni, l’opera di Kentridge è un contenitore stratificato di movimenti, in atto e in potenza, che riserva alla manualità la sovranità rispetto alla tecnologia.
Eppure, il problema del medium non esaurisce completamente la ricerca artistica del sudafricano.
Journey to the Moon offre anche interessanti spunti per un discorso sul concetto di narrazione. Le immagini senza matrice del video, legate sostanzialmente a una sceneggiatura, non possono che rappresentare una storia interrotta, destrutturata dalla natura stessa della tecnica dell’autore. Soko Eckermann, avido capitalista minerario, costringe alla fame masse ribollenti d’odio, mentre il protagonista Felix Tannenbaum si vendica seducendo sua moglie.
Su questo canovaccio aperto s’irradiano le costellazioni tortuose dei disegni. Il punto è che i nessi narrativi sono affidati alla proliferazione senza tregua dei segni, che spesso si convertono in simboli che violentano l’immagine dall’interno. Accade che la lingua di un personaggio si trasformi in pesce e sguazzi fino a raggiungere le camere dell’innamorata, o il giornale di cronaca della guerra in Sudafrica porti Felix in esilio ai cadaveri del suo Paese. Lo stesso Kentridge precisa, in una nota allo spettacolo, quanto le difficoltà incontrate nella stesura della sceneggiatura lo abbiano indotto a una forma rappresentativa più astratta e sfuggente. E se gli oggetti guadagnano spesso lo status di simbolo-motore del racconto, è la narrazione stessa a stemperarsi in un’atmosfera onirica, dove i frammenti del discorso possono ricomporsi solo a posteriori.