Burrows/Fargion l The quite dance
Qualcuno sostiene che l’essenza dell’agire è dispiegare il pensiero nella sua completezza. I gesti ossessivi e ripetuti di Jonathan Burrows e Matteo Fargion in The quite dance sono il dispiegamento di un pensiero tipografico assillante. Lo spazio scenico vuoto, la centralità del corpo, sembrano rimandi ad un paesaggio beckettiano, dove non è rimasto più nulla e nessuno. Niente musica, nessuna parola conoscibile. Solo l’eco lontano di una natura possibile fuori dallo spazio bianco e in(de)finitamente grande della GAM. The quite dance riprende dal lavoro precedente Both Sitting Duet, gli elementi base, ma ora Burrows e Fargion sono in piedi, e ripetono meccanicamente alcune partiture coreografiche, ciascuna di otto passi, a volte accompagnate da una vocalizzazione monotona, che si interrompono simultaneamente. Tutta l’azione sembra svolgersi lontana nel tempo oltre che nello spazio, come inclusa in un ritardo percettivo. Il corpo si fa vettore di una coscienza antica che amplifica la percezione di chi guarda alla ricerca di quel linguaggio che dopo un’attenta opera di trans-codifica è divenuto gesto danzato. Ma come per inquietante ironia di quel linguaggio sembra non rimanere più nulla, l’unica riviviscenza che troviamo è legata ai corpi in scena, al ricordo (o al desiderio) di vederli in un mondo dove agiscono liberamente. E allora in The quite dance c’è il fantasma di tutti gli altri gesti, gli altri passi, gli altri movimenti che i performer non compiono. Come se i gesti scritti, significassero ciò che manca. Ma non manca nulla. Alla fine tutto è chiaro. Tutto è dispiegato.
jacopo lanteri
spettacolo visto 21 aprile 2006
STOA l Ballo eccezionale degli incontri e delle esclusioni
Aveva forse ragione Winckelmann ad identificare l’arte greca e la sua perfezione nella statuaria. Più che nei templi ormai caduti, più che nelle pitture perdute, nelle musiche svanite, nel vasellame, sublime ma sospetto d’artigianato. Sono le statue a parlarci, ancor oggi, della classicità, mito inesistente e tenace. La Stoa, la “scuola di movimento fisico e filosofico” creata dalla Socìetas Raffaello Sanzio nel 2002, si presenta nella sala centrale della GAM in occasione di FISCo/ Figura N° con un progetto suggestivo che fa tesoro dell’immaginario legato alle arti plastiche. Ballo eccezionale degli incontri e delle esclusioni ha per titolo la performance. Ed è così nel movimento dei quattordici giovani, uniformati da tenute grigie e desessuati con corti gonnellini da oplita, confusi nell’identità da acconciature maschili e femminili liberamente incrociate, tra le quali spuntano barbe e riccioli di purissima ascendenza ionico-attica, la logica dell’aggregazione e dell’estinzione del soggetto è l’unica dominante.
Come negli sconquassi atomici, dove un elettrone lascia un atomo e ne manda in frantumi altri, ricostruendo e disgregando. Come nei moti convettivi e centripeti delle cellule, quegli organismi microscopici che la Socìetas ha tante volte fissato e mostrato al suo pubblico. È una performance bidimensionale, un fregio ad altorilievo, o meglio circolare, come la decorazione di un grande cratere. Una ricerca sulla ritmica dei corpi intesi come insieme, sia nell’aggrovigliarsi in un gruppo alla Laocoonte, sia nello schierarsi in due file di Kùroi arcaici a cornice, sia nel fissarsi in pose classiche, come in un donario delfico, dove lampeggiano un Doriforo, e atleti ed eroi senza nome consegnati da millenni alla memoria visiva dell’occidente. Mentre un tappeto ritmico-rumoristico scandiva gli esercizi, ripetitivi e ipnotici, che gli allievi eseguivano con volti imperturbati, senza io, il pensiero andava a quella classicità intrisa di barbarie che dopo Nietzsche sappiamo riconoscere, e in un’esperienza che porta il nome di una famosa scuola ateniese, la Stoà di Zenone, si scorgevano piuttosto i tratti, militareschi e severi, di un collegio spartano.
luigi weber
spettacolo visto il 24 aprile 2006
Compagnie 7273 l Simple Proposition
Entra lei. Un. Entra lui. Duo. L’uno accanto all’altra. Un duo. Si presentano così, con raffinata semplicità ed elegante consapevolezza scenica, i giovani danzatori Laurence Yadi e Nicolas Cantillon, svelandoci immediatamente il proprio gioco. Gioco di allusioni, citazioni e visioni spietatamente pulite:
Non si può non ricorrere a una prosa franta, eloquente grazie a semplici evocazioni, a ritmi modulati nella punteggiatura o a eventuali peregrinazioni metaforiche, per rintracciare il percorso di questa Simple Proposition. La precisione essenziale della danza si coniuga con un discorso coreografico asciutto ma carico di suggestioni, costruito per quadri in cui le linee anatomiche diventano astratte seguendo pieni e vuoti del silenzio. Rarefacendosi nelle pieghe di questa atmosfera densa, gli sguardi dei danzatori rimangono altrove e creano un mondo evanescente dove le possibilità di solitudine o di relazione non possono che rimanere sospese. Il linguaggio è ormai conosciuto: nella sua purezza formale assume i caratteri di un codice definito e il pubblico in sala -raccolto in poche file- può riconoscerlo, seguirne la lentezza ricercata delle frasi e farsi condurre da una chiara sintassi, piacevolissima a vedersi. Eppure, forse, qualcosa si perde: nonostante l’innegabile qualità del lavoro, evapora nella maestria sicura del gioco figurativo lo spessore della materia corporea.
sara dal corso
spettacolo visto il 26 aprile 2006
Compagnie 391 l Love
Tableaux vivants e archetipi scenici per Love, performance su dispositivo praticabile blu croma-key 6×4, per 6 interpreti, 3 uomini e 3 donne e penombra laterale alla scena. Loïc Touzé e Latifa Laâbissi, i due irregolari della scena coreografica sperimentale francese, tornano a Bologna dopo Morceau.
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Truccati come attori del cinema muto – lieve strato di cerone bianco e labbra rosse – i performer guadagnano la scena salendo e scendendo dalla pedana monocroma, con le loro divise ton sur ton. Fingono una morte improvvisa, poi una lite ad occhi chiusi, diventano leoni, cani, un tip tap, scene di combattimento tra botte vere, rantoli e tonfi onomatopeici. Nello spazio senza profondità, luminescente e silenzioso di Love vengono costruite immagini che si dissolvono all’istante. Gli stop-motion convocano la fotografia, ma soprattutto la tradizione pittorica, ora per quelle pose alla Pieter Bruegel, ora per certi affollamenti caotici tenuti su sottili equilibri compositivi dagli eco pontormiani. Composizioni spiazzate e piazzate in una solitudine di triviale intensità. Mimo, pantomima, cinema espressionista tedesco e poi i film di chaplin sembrano a ogni ingresso aggregare le figure su piste di inter-rotte catene analogiche che lasciano credere che si stia componendo una narrazione. La composizione seriale delle azioni si scioglie in una struttura diastolica, continua e discontinua, in una linearità spezzata che alterna tensione e rilassamento in cui le immagini create non si cristallizzano, ma neppure trovano sviluppo.
Sin qui, niente di nuova dirà qualcuno, forse senza tenere in giusto conto, che in quella stratificazione minimale si fa a un tempo puro divertissement e provocatoria ironia sull’idea di composizione e controllo propria della danza, e arena di discussione di rimosse aree di espressività.
Quella di Compagnie 391 si restituisce come una scena consapevole della propria genealogia e collocazione storica, che sembra rispondere alla pienezza informativa in cui viviamo, alla stratificazione segnica del citazionismo coatto, all’indagine del corpo o alla sua spoglia concettuale, con una ricercata idiozia intesa come ricombinazione di sintassi e lessici estranei capaci di interrogare durata-spazio-gesto a partire da una frizione di elementi eterogenei e incontrollabili, compresi tra esposizione e sparizione per restituire uno spettacolo senza s-fondo.
piersandra di matteo
spettacolo visto il 29 aprile 2006
dossier a cura di piersandra di matteo
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