Dieci anni sono passati da quando il Teatro delle Moire, alias
Alessandra De Santis e
Attilio Nicoli Cristiani, hanno dato vita alla prima edizione del Festival Danae, rassegna tutta al femminile dedicata alla nuova scena tra performance e teatro “diverso”, ma mai gender.
Quest’anno Danae ha inaugurato le sue giornate con un incontro pubblico per la presentazione di un libro intitolato
Anatomie di un corpo scenico, che narra le vicissitudini erranti del gruppo storico che ha creato un appuntamento importante per la città, intitolandolo con il nome di una divinità simbolo di creatività coatta e fertile.
Corpo, parola, musica, video, carta, manichini: questi gli ingredienti di un corpo scenico non più assimilabile ai canoni tradizionali della danza o del teatro
tout court. Nell’esilarante e ironica
Habiter – Conference queer della regista francese
Patricia Allio, l’interprete
Pierre Maillet presta il suo nudo disarmante ai più disparati e maliziosi calembour, per creare un corto circuito tra parola, azione scenica e corporeità, tutto giocato sulla natura migratoria delle parole sospese tra architettura domestica e identità sessuale.
Stessa tematica ma vissuta con corde più intimiste la doppia serata al Teatro Litta con due protagoniste della coreografia italiana al femminile: Simona Bertozzi e Alessandra Cristiani. Nella prima performance,
Simona Bertozzi, danzatrice storica di
Virgilio Sieni, costruisce uno spazio d’interni legato alla casualità delle carte da gioco e alla X di luce proiettata sulla porta d’ingresso, che assegna al corpo prepotentemente contorto la dimensione onirica di un interno a-spaziale.
Più radicale il nudo fortemente evocativo di
Alessandra Cristiani che, dietro la regia della coreografa
Silvia Rampelli di
Habillé d’Eau, rompe la monotonia cromatica di un corpo nudo per trasformarlo in una scultura vivente e drammatica, mentre traccia il segno del tempo dalla dimensione statica della lentezza alla vorticosità dinamica di un bianco vestito da sposa.
Dagli interni raffinati e dagli esterni metropolitani fatti di grattacieli e strade d’asfalto, nelle raffinate illustrazioni animate di
Filippo Letizi, emergono nell’estetizzante lavoro dei
Motus le tre protagoniste di
Rumore Rosa. Ricordano solo leggermente le icone fassbinderiane de
Le lacrime amare di Petra Von Kant, assorte come sono nel centrare coni di luce estranianti tra folate di ventilatori impazziti e giradischi incantati.
Fuori luogo le ambientazioni funebri con tanto di bare e succo di mirtillo della francese
Gisèle Vienne, in cui il contesto volutamente macabro sottolinea con disarmante intensità la vacuità drammaturgica del personaggio interpretato da
Anne Mousselet e dai manichini suoi cloni, creati dalla stessa coreografa.
Tra le performance urbane da banchina del tram e da vetrina di negozi, piacevole consuetudine di Danae, tra le sinuose linee dell’italiana
Maria Donata d’Urso e le ironie psico-casalinghe di
Ambra Senatore, in versione donna di casa anni ‘50, merita di essere segnalato lo spettacolo di chiusura della giovane portoghese
Màrcia Lança,
Dos joelhos para baixo, un’autentica danza di casette ed edifici di carta. Donne e uomini sottili come carta velina sono mossi grazie alla levità (coreo)grafica della interprete/autrice, che costruisce sotto gli occhi stupefatti dello spettatore una città sospesa tra il sogno e la vita quotidiana, tra luci di lampade e polveri che lasciano la traccia eterea ed eterna delle azioni umane.