Accanto alla rassegna video curata da TTV (Riccione
Teatro/Riccione TTV Festival), che fino al 19 febbraio presenta al pubblico
alcuni dei più importanti spettacoli di Pina Bausch – da Cafè Muller a Le
Sacre du Printemps -, documentari e interventi di importanti studiosi – Uno
sguardo di Susan Sontag -, Sidi Larbi costruisce il suo cartellone
guardando alla danza post-bauschiana in un miscuglio di teatro-danza e circo,
venature hip hop e tematiche orientaleggianti traslate nella realtà
“glocalizzata”.
È proprio questo termine, coniato dal sociologo Zygmunt
Bauman, a tracciare le linee di congiunzione fra la danza di Pina Bausch e
quella dei coreografi a venire. Un crogiuolo di tradizioni, lingue, movimenti
rubati a danze locali rimontate sul palcoscenico per essere specchio di una
contemporaneità che, lungi dal rifiutare il locale, lo guarda come origine
della società in ogni epoca. Un “folklore planetario”, per utilizzare le parole di Edgar
Morin, in cui i coreografi cercano la loro unità (o universalità) divenendo,
per scelta, figli dell’industria culturale planetaria. È quella che Elisa Guazzo
Vaccarino, in Danze plurali/l’altrove qui, definisce danza “postesotica”: “I coreografi giapponesi,
cinesi, africani, indiani cioè gli extra-europei attivi qui o i creatori
europei operanti ‘altrove’, mescolano deliberatamente le componenti che
decidono di assumere dalle due o più culture a cui appartengono e che hanno
fatto proprie, segnando, in questo, un percorso di effettivo ridisegno nomadico
della propria identità di partenza, con un cambiamento di ampio rilievo
rispetto all’approccio esotista che fu caratterizzato dal primo Novecento”.
D’altronde, non è un caso che proprio Pina Bausch,
nella sua ricerca nei confini della danza, si affidasse volutamente a danzatori
multietnici. Resta da capire quanto questa modalità di approccio alla danza,
reiterata nel tempo, abbia conservato la propria valenza e il proprio significato
originario o quanto, piuttosto, si sia persa in un fare fusion di
maniera, per uno spettatore sempre attratto da yoga, sushi e misticismo
orientale. Mentre lo stesso Sidi Larbi Cherkaoui cade in questa trappola e apre
il festival presentando in prima nazionale Play, coreografia nata dal
confronto/collaborazione con la danzatrice di origine indiana Shantala
Shivalingappa, tra kukhipudi
e retorica reiterazione (o clonazione) della propria poetica e del proprio fare
scenico; Vertical Road, nuova produzione dell’Akram Khan Company sembra
riuscire a svincolarsi da tali dinamiche.
Londinese di origini bangladeshiane, Akram Khan riunisce
un gruppo di performer provenienti da Asia, Europa e Medio Oriente in una pièce
che trae spunto dalla tradizione sufi e dagli scritti del filosofo e poeta
persiano Rumi. In una scena totalmente spoglia, lasciata quasi sempre nella
totale penombra, il gruppo di danzatori si muove destreggiando un vocabolario
costituito dai movimenti di rituali tradizionali, reminescenze di kathak indiano e figuratività
religiosa che ibrida induismo, ebraismo, cristianesimo e islam. Sulla colonna
sonora, creata per l’occasione dal compositore Nitin Sawhney e giocata
tutta su motivi martellanti con forte uso dei bassi, la compagnia analizza il
tema dell’ascensione legandolo al concetto di morte.
Il palco diviene, allora, il luogo della visione,
uno spazio etereo in cui la figura umana trascende la sua carnalità, il
percorso terrestre, la linea orizzontale – che è cronologia, storia, velocità –
tendendo alla verticalità, all’ascesi. I corpi dei danzatori si perdono in uno
spazio permeato da fumo e luci strobo che accentuano la visionarietà dell’opera
astraendola da un preciso orizzonte culturale e geografico. Ed è proprio questa
la qualità prima di Vertical Road, ossia il suo riuscire a catturare lo
sguardo dello spettatore attraverso immagini ancestrali, parte di una memoria
collettiva universale, che lasciano sullo sfondo la tradizione rendendola seme
della società globale.
Apparentemente più distante dal concetto di danza
postesotica è, infine, Transaquania – Into thin air, spettacolo della Iceland
Dance Company, compagnia guidata da Erna Ómarsdóttir, Damien Jalet e Gabriela
Friðriksdóttir. Seguendo il percorso iniziato con la precedente performance
ambientata all’interno del celebre Blue Lagoon, nella quale gli artisti
creavano un universo di nuovi organismi reinterpretando le teorie
dell’evoluzione e i rituali tribali per dar vita a una nuova mitologia fisica, Into
Thin Air narra l’evoluzione di questi stessi organismi fotografati in un
lontano futuro in cui le acque sono scomparse dal suolo terreste.
Sempre coperti da bizzarri costumi, i corpi dei
danzatori occupano teatralmente lo spazio e raccontano la vita delle creature
attraverso dei movimenti permeati da atletismi ed estetica circense.
Vocabolario pop alla Takeshi Murakami, citazioni di videogame e manga giapponesi concorrono a una
visionaria ricostruzione corporea per una futurologia al limite del kitsch che
funge da memento mori per una società caratterizzata da repentine
trasformazioni, transizioni e metamorfosi tanto culturali quanti fisiche.
Così, fra tradizione e proiezione di un visionario
futuro, Equilibrio mostra al contempo
la meravigliosa ibridazione culturale operata dalla danza contemporanea e la
sua imminente corruzione in un sistema – quello dell’industria culturale – già
pronto a fagocitarla.
matteo antonaci
la rubrica arteatro è
diretta da piersandra di matteo
dal primo
al 22 febbraio 2011
Equilibrio – Festival della nuova danza 2011
direzione artistica: Sidi Larbi Cherkaoui
Auditorium – Parco della Musica
Viale Pietro De Coubertin, 34 (zona Flaminio) – 00196 Roma
Info: tel. +39 0680241436; info@musicaperroma.it; www.auditorium.com
[exibart]
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