In-Transit, festival berlinese dedicato alle arti performative,
prende forma in una tensione fra processi socio-politici da un lato e posizioni
artistiche dall’altro. Già a partire dalla prima edizione del 2002 è dedicato
agli sviluppi nelle arti performative in Asia, Africa e nelle Americhe e alla
loro relazione con la scena europea.
L’edizione del 2009, curata da
André Lepecki – teorico, ricercatore,
drammaturgo e curatore d’origini brasialiane, ma di base a New York – è
dedicata alla “
resistenza dell’oggetto”, tema ispirato dall’omonimo saggio del teorico
afro-americano Fred Moten. Un programma densissimo di spettacoli, azioni
performative, installazioni permanenti, laboratori, lecture, e vari formati
ibridi, in una continua tensione tra spazio espositivo e spazio teatrale, per
lo spettatore, un percorso in territori di confine tra le arti.
Esemplare a questo proposito è la serata inaugurale, che
presenta una serie d’installazioni tra cui un gigantesco white cube posizionato
nella sala d’ingresso, abitato per tutta la durata del festival da
Maria
José Ariona,
artista colombiana che fa le bolle, bolle rosse che lasciano tracce come di
sangue sulle pareti bianco candido.
Un accostamento di colori, bianco candido e rosso sangue,
che ritorna nello spettacolo d’apertura,
Hibiki, della compagnia
Sankai Juku fondata dal danzatore butoh
Ushio
Amagatsu, che con
i suoi 75 anni porta in scena una poesia del corpo che trascende il dolore e
rivive oltre la violenza. A fine spettacolo danza anche il pubblico, coinvolto
da una musica dance ad alto volume e da animatori/danzatori che trasformano la
Casa delle Culture in una gran pista da ballo.
Gli oggetti giocano un ruolo dominante e diventano attori
principali, come nel solo-performance della giovanissima
Aitana Cordero, che letteralmente testa la
resistenza dell’oggetto, prendendo a martellate e distruggendo cose d’uso
quotidiano, da lei distribuite con strana cura e in quantità nello spazio.
Cordero mette in scena la relazione con gli oggetti, il rapporto d’odio-amore
che può nascere tra noi e loro, tanto che, quando poi li distrugge, il pubblico
dà segno di una certa compassione.
L’oggetto diventa protagonista anche nel lavoro della
compagnia nippo-finlandese
Deep Blue,
che offre al pubblico una serie di scatolette interattive che ne
distolgono completamente l’attenzione dall’agire dei corpi. L’oggetto diventa
performance e sovrasta i corpi, come nell’installazione performativa
Rubbish
City del
collettivo
Lilith Performance Studio, dove il pubblico deve letteralmente scovare i performer
in una città fatta di spazzatura allestita nella sala delle esposizioni.
I corpi diventano oggetto di un esperimento scientifico
bizzarro del coreografo
Trajal Harrel: un gruppo di performer che ha assunto Ambien, il
sonnifero più diffuso negli Usa, si sdraia a dormire a terra; il pubblico è
libero di circolare e guardare. Con
Gustavia,
Matilde Monnier e
La Ribot non permettono agli oggetti di
prendere il loro posto, ma mettono in scena i loro corpi di danzatrici quasi
cinquantenni, con un ironico
da consumarsi preferibilmente entro la data di
scadenza… in
una commedia che ne mostra la trasformazione con mezzi assurdi e sculturali.
A concludere, la performance
Black!….White? della coreografa sudafricana
Nelisiwe
Xaba, che parla
del desiderio di cambiare colore di pelle e della sue implicazioni in un gioco
di stratificazioni di bianco e di nero.
Il festival nel suo insieme è un tessuto attraversato da
venature laboratoriali, da performance che si costruiscono durante il festival
stesso, come quelle di
Homan Sharifi e
Julie Tolentino, o come i laboratori teorici in collaborazione con
diverse università internazionali e berlinesi. Un tessuto, ma anche una sorta
di antologia della performance contemporanea, con filoni tematici tesi fra
generazioni diverse di artisti che sono parte della scena globale.