Tradisce un legame semantico con i precedenti
Figura n. 1 e
Figura n. 2 l’ultimo lavoro di
Plumes dans la Tête. Il nuovo progetto del giovane collettivo veneto, formatosi per dar voce e corpo alla necessità di creare un lavoro e portare avanti un’idea, fa coesistere in scena tre elaborazioni dello stesso concetto: il rapporto tra corpo e spazio.
Tre interpeti diverse ma sintoniche – l’androgina
Mara Cassiani, la più morbida
Martina Conti e lo scricciolo biondo
Silvia Costa – trasfigurate da parrucche, costumi neri e lattice a rivestirne gli arti. Tre presenze non più umane, che traggono dalla relazione con uno spazio, circoscritto e geometricamente ben definito, la loro identità. Tre
figure, appunto, i cui contorni si stagliano nel nero totale della scena, in parte perdendovisi, non fosse per quelle braccia, quelle gambe nude che ricordano allo spettatore che ciò che sta vedendo è anche materia vivente.
E “materico” è quanto di più calzante può esser detto di questo
Figure, dal momento che è la stessa Silvia Costa a svelare come proprio la tattilità le venga in aiuto ogni volta, nel domare uno spazio che pare sconfinato e dotato di un’imprevedibilità incontrollabile. C’è ogni volta un senso di smarrimento che accompagna l’andare in scena e l’affrontare il lavoro, anche (o soprattutto?) quando il nodo tematico da sciogliere è già stato affrontato in precedenza.
Non esistono semplici costumi o scenografie, piuttosto strumenti di lettura di un linguaggio, quello della scena, che il giovane collettivo veneto sta ancora imparando a conoscere. Ecco dunque gli odori, i rumori e le forti sensazioni tattili del lattice, degli oggetti in legno e in ferro a sopraffare una coreografia essenziale, opera della stessa Costa, e a trascinare lo spettatore in una realtà più installativa che performativa, in una sorta di quadro in cui tutto si muove senza che nulla accada, complice anche il ritmo sospeso dei rari momenti musicali che interrompono un silenzio quasi suggestionante.
Rivela ancora la sua fragilità
Figure e Silvia Costa non nasconde l’esigenza di lavorarci, scavare nelle pieghe dell’anima, sviscerarne il senso più profondo: si potrebbe forse meglio sottolineare la diversità delle interpreti, lasciando loro maggior spazio creativo oltre che interpretativo? Si potrebbero forse condensare i 45 minuti attuali in un concentrato che arrivi dritto allo stomaco? Forse.
Ma dietro gli occhiali, lo sguardo di Costa vola già oltre, al prossimo lavoro e a un altro tema da affrontare, con l’urgenza di abbandonare il percorso tracciato sin qui per esplorare un’altra parte dello spazio sconfinato della scena. E partire con il prossimo viaggio.