È una stella nascente del firmamento della danza contemporanea mondiale Emanuel Gat, classe 1969, originario di Hadera in Israele. Ed è ormai un aneddoto famosissimo quello per cui, pochi anni fa, voleva mollare tutto per fare il barman. Per fortuna non è stato così.
Non autocensura ma vera e propria censura, invece, per
Rabih Mroué (Beirut, 1967), che diversamente da Gat il suo lavoro voleva continuare a farlo. Ma per un po’ non ha potuto a causa della Sicurezza generale libanese, che poco aveva gradito le implicazioni politiche e di denuncia del suo
How Nancy wished that everything was an April fool’s joke, lo spettacolo che il festival ha voluto portare a Roma, al teatro Palladium. Uno dei tre -il più bello, per alcuni- che avevano già conquistato Parigi. Anche qui un epilogo positivo, e anzi la possibilità che con lo sdoganamento dell’opera si conquisti la libertà di espressione in un Paese come il Libano, dove lo spazio per rendere pubbliche le proprie opinioni si fa di giorno in giorno più risicato.
How Nancy è un testo che allo spettatore non risparmia niente. Ma non perché descriva la guerra in Libano con parole cruente e dal taglio iperrealista. Al contrario, è proprio il tono beffardo con cui narra lo scempio che si è perpetrato sin dal 1975 che fa male. I quattro personaggi variamente coinvolti nelle beghe politiche e nelle azioni sanguinose del luogo raccontano la loro esperienza con la massima tranquillità, comprese le loro molteplici morti. Sì perché, come in una
Pulp fiction in lingua araba, dotata della stessa insostenibile leggerezza di un gioco di ruolo, in questa pièce si muore con serafica rassegnazione; e con la stessa serafica rassegnazione si continuano, dopo, a fare le cose di sempre. Il tutto punteggiato dalla farsesca illustrazione ottenuta attraverso quei manifesti mortuari che, grazie ai mass media, tutti ormai conosciamo e che testimoniano, con un linguaggio iconico di inarrivabile retorica, il sacrificio dell’eroe di turno. Solo che qui vengono usate come inedita cornice di un surreale fumetto che riporta per immagini la storia narrata e che, al posto delle nuvole parlanti, ha le iscrizioni funebri composte a caratteri cubitali. Un continuo quanto sottile gioco di rimandi, dunque, fra incoscienza del vivere e coscienza sin troppo percepita del (dover) morire.
Chi invece su questa incoscienza del vivere -e su tutta la passionalità e la sensualità che si porta dietro- ha costruito il suo lavoro è
Emanuel Gat. Il suo
Winter Voyage/La sagra della primavera sembra voler dare un’idea panica delle forze psichiche che muovono l’essere umano e che lo spingono sia all’introversione, e quindi alla riflessione, sia all’estroversione, e quindi all’incontro supremo con l’altro. Qui troviamo un’altra particolarità biografica del coreografo israeliano: inizialmente aveva studiato per diventare direttore d’orchestra. Per certi versi, l’unico musicista del gruppo privo di strumenti, ma che deve farsi attraversare dalla musica corpo e anima, fibra per fibra, emozione per emozione, per restituire al suono la
sua fisicità, strutturata ed espressiva. E questo spiega tutto. Spiega in particolare la rappresentazione proposta al Palladium, dove la prima parte,
Winter Voyage, danzata sulle musiche dello Schubert del
Winterreise, e in particolare dei lieder 5, 6 e 24, vede un palcoscenico rigorosamente spoglio e due soli ballerini, che si richiamano l’un l’altro i gesti e i passi, vestiti spartanamente con tuniche color grigio-argento. In questo apparente minimalismo c’è però tutta la possanza di una madre Terra dormiente sotto il velo di freddo e neve delle temperature invernali. E i danzatori, con i loro abiti svolazzanti, danno con precisione da naturalista navigato l’idea del sonnacchioso respiro del pianeta che si manifesta a momenti, con quelle folate di vento gelido che soffiano a volte rincorrendosi, a volte placandosi, creando giocosi mulinelli o cambiando improvvisamente direzione. Un paesaggio desolato e silenzioso, dove tutto è morto, ma solo nell’attesa di risorgere. Ed eccola, poi, la resurrezione, nella seconda parte dello spettacolo. La
Sagra della primavera, sulle note dello splendido balletto musicato da Stravinsky, in questo caso totalmente rivisto e corretto. Qui ai due ballerini si aggiungono tre ballerine, di una fisicità eccessiva e plateale, e dove la mancanza di simmetria consente un equilibrio-squilibrio delle parti che bandisce la staticità e costringe i danzatori a un movimento continuo, a un prendere-e-lasciare che vede formarsi sempre nuove coppie. Ma questo continuo scambio conduce inevitabilmente a un conflitto e, come in una
Cavalleria rusticana dalla pelle olivastra, si identifica senza troppa difficoltà la Lola della situazione. Tuttavia, qualsiasi sia l’epilogo della storia, non sembra comunque avere per Gat una valenza negativa. Come a dire: è pur sempre vita. E in questi intrecci funambolici, legati da passi di salsa che costruiscono delle scene al limite della perfezione, i movimenti dei cinque ballerini si stagliano come quadri d’autore su uno sfondo nero, inondati da una voluttuosa luce rossa.
Dall’erotismo concupiscente di Gat allo struggimento evocativo di
Ashura, la proposta che viene dall’Anatolia, il salto sembra essere infinito, ma non lo è. La rappresentazione che
Mustafa Avkiran (Gaziantep, 1963) e sua moglie
Övül (Istanbul, 1971) portano nello stesso teatro unisce, con un’intensità tragica, la musica al teatro alla danza, raccontando come quel lembo di terra, che i romani chiamavano Asia minore, fosse un tempo culla di numerose civiltà, testimoniate dalle diverse lingue, oggi ormai perse a causa della colonizzazione turca. La musica, sovrana, fa da filo conduttore con le toccanti note delle canzoni e le voci straordinarie e strazianti di Sema e di Harun Ates. A ritmare il tutto, con una spietata cadenza, i numeri delle statistiche sulla varietà di lingue parlate in Anatolia. Dalla fine degli anni ’20 al 2005, quando il governo turco ha deciso che questa importante biodiversità linguistica non interessava più. E sul palco, come fantasmi neri, i musici e i due attori, Mustafa e Övül, attraverso l’azione scenica e il lirismo delle loro sonorità raccontano storie di separazioni, povertà, perdita, amore e fede, gioia e tristezza. Il tutto ritualizzato con gesti emblematici, aggirandosi fra bottiglie piene d’acqua, raccogliendo pietre gettate in terra e, soprattutto, schierandosi silenziosamente davanti agli spettatori e imbavagliandosi lentamente. Con un gesto che ha tutta la dolorosa violenza di una storia lontana e priva di futuro.