Cala il sipario, è il caso di dirlo, sul
Teatro Festival Italia, rassegna nazionale che Napoli è riuscita a strappare (almeno fino al 2010) all’antagonista Genova. Evento che più d’una volta ha incrociato l’arte, non solo con l’
esplosiva installazione di
Loredana Longo all’Albergo dei Poveri, ma in particolare grazie a due prime nazionali, entrambe “toste”, entrambe caratterizzate da una vena disturbante, entrambe basate su una fisicità intensa, seppur diversamente agita.
Scritto da
Tim Crouch e diretto da Carlo Cerciello,
England è stato indiscutibilmente uno dei successi del cartellone: partito dal museo Madre, ha inanellato quattordici rappresentazioni tra gallerie e altri cittadini luoghi del contemporaneo, premiate quasi sempre dal tutto esaurito. Prevedibile, visto il numero limitato di posti a disposizione, ma meritatissimo.
Climax emotivo e due attori straordinariamente affiatati e generosi come Mercedes Martini e Paolo Coletta sono tra i punti di forza di un testo coinvolgente, nel quale l’arte entra come professione d’élite e hobby di tendenza per problematici giovani
upper class, lucroso investimento e moneta di scambio anche di fronte alla merce più preziosa: la vita. E non è detto che chi viva d’arte viva d’amore, e che chi ha appena ottenuto un cuore nuovo di zecca ce l’abbia davvero, tanto è il cinismo di questa pièce incardinata sul
trapianto, sia come trasloco in una location sempre diversa, sia come esito di un plot tramato di battute non sempre consequenziali, affastellate, più che innestate, in un ritmo convulso, a tratti irritante, e dagli sviluppi imprevedibili.
Il
fatto è un dubbio trapianto di cuore, che allarga la visuale dai temi della malattia e dell’incomunicabilità di coppia a una dimensione sociale e politica. Il punto debole, semmai, è consistito nell’oggettiva impossibilità di realizzare una contestualizzazione sempre convincente, risolta spesso in una blanda e disorganica citazione del comunicato stampa.
E se
England ruota intorno a una sapiente struttura dialogica e narrativa, gli altrettanti sessanta minuti di
Another Sleepy Dusty Delta Day si reggono esclusivamente sulle spalle, sulle gambe, sulle braccia, sul volto e sull’ugola della performer croata
Ivana Jozic che, aiutata da un’asciutta e poderosa fisicità, obbedisce perfettamente al regista e scenografo
Jan Fabre. Il quale concepisce questo atto unico (replicato per tre sere al Teatro Nuovo) come un congegno meccanico dalla
virile coreografia che, abolita ogni grazia tersicorea, fa dell’instancabile protagonista un rude ingranaggio della ripetitiva
macchina scenica dove, tra luccicanti mucchi di carbone, corrono senza sosta modellini di treni e oscillano gabbie di uccellini.
Una torbida atmosfera da
deep America in cui domina la nota del giallo, sia nell’allestimento che concettualmente, poiché l’intreccio, anche qui dipanato progressivamente (e tuttavia mai completamente sciolto), si fonda su un suicidio per amore, annunciato in una spiegazzata lettera cilestrina e compianto nell’
Ode to Billy Joe. Leggendaria canzone di Bobbie Gentry, punto di partenza e leitmotiv di una messinscena ossessiva, diretta, brusca, eppure poco comunicativa, che “cade” su alcune provocazioni gratuite (come la simulata minzione con bottiglia di birra nelle mutande) e impone non poche difficoltà di fruizione al pubblico, sbattuto di fronte al volto sporco e senza innocenza del binomio
eros e thanatos.