Nel ring del mondo in cui certo “teatro” è messo alle corde,
Kinkaleri non chiede sconti e non si fa assistere da improvvisati secondi. Quando c’è in gioco l’esistenza (e c’è sempre in gioco l’esistenza, il resto è solo cosmetica) si accetta di lottare, anche se il gioco è stato truccato.
Così, senza protezioni, K tira un altro fendente a moralisti delle arti e ai turisti delle opinioni, ed esce per la Ubu con un libro quadrato:
La scena esausta, appunto. Un libro quadrato che poi, a ben guardare, quadrato non è; eccede, straborda, inganna la percezione primaria e instilla un dubbio che porta a riappoggiare lo sguardo, il pensiero. Anche nel formato a stampa la cifra più sensibile dei Kinkaleri è la dismisura. Un misura altra, ragionatissima, che travalica le formule e le abitudini del linguaggio corrente per far compiere alla scena uno scatto insieme all’indietro e in avanti, in una dimensione sia critica che conoscitiva. Sono quasi epifanie, quelle kinkaleresche, ma epifanie del reale: storte e claudicanti, abbaglianti e stringate, strette nella morsa tenace della loro invincibile, meravigliosa pochezza.
Scena esausta, recita quindi il titolo. Esausta forse, ma vitale. Senza bisogno di rianimazione, il libro stilla e traduce in diversi linguaggi la deflagrazione che Kinkaleri ha assorbito nel mondo e restituito alla scena. Il volume si articola su tre piani distinti e intrecciati, in un progetto non euclideo che è l’unico abbastanza largo da poter includere tutto l’universo kinkaleresco.
La prima dimensione è quella immaginativa, che fa perno su una ricerca iconografica puntuale e strabordante, con disegni e foto realizzate e scelte da Kinkaleri.
Immagini aperte, quasi lacerate, che feriscono nel restituire senza mezzi termini il mondo così come lo immagina il collettivo pratese. Non solo foto di scena quindi ma segni e cicatrici del pensiero che si coagula attorno alla scena, nel prima, nel dopo e nell’incredibile durante del teatro e, inciampando l’una sull’altra, così come accade negli spettacoli dei Kinkaleri, ridondano ciò che già è noto, evidente, facendo all’improvviso scoprire di comprenderlo pienamente solo in quell’istante.
Una dismisura colma, quella dei Kinkaleri, anche nell’apparato immaginativo del volume, apparato che non può essere definito tale ma al contrario si sbalza nella sua funzione primaria, parallela a tutto il percorso scenico: quella di convettore e focalizzatore di suggestioni gnostiche definitive e assolute come un tatuaggio ma immediatamente cancellate da un gesto lieve e feroce come il voltare pagina, come l’inventarsi un’altra scena.
Poi c’è la dimensione della scrittura, degli interventi del pensiero di chi è stato testimone, complice, antagonista o giudice dell’avventura di K. Questi testi sono come schegge di vetro, luminosi e acuminati, ognuno con un angolo, un taglio, uno spigolo diverso e a proprio modo affilato. Una trafittura concettuale ed emozionale continua, indefessa, quella di questi contributi teorici. Testi che anche quando declinati verso un passato, verso spettacoli che non si vedranno più, evitano la dimensione nostalgica ma che raccontandoci, raccontandosi, restituiscono la nostalgia di un futuro sempre più sfaldato.
L’ultimo livello è quello della trascrittura delle creazioni che vanno dal 2001 al 2008, da
My love for you will never die a
Nerone, passando attraverso spettacoli seminali come
Otto. Si tratta proprio di trascrizioni, accurate e dettagliate come un manuale di entomologia, di ciò che succede in scena. Non c’è autore ma c’è un “si vede”, non c’è regia in questa parola-testimone ma c’è un ritmo, ossessivo per lo più, capace di restituire ciò che sulla scena è accaduto.
Ma attenzione, qui si svela e si rivela il progetto di tutto il volume: non è ciò che sulla scena accade, ma ciò che si vede. Che si vede in una personalissima impersonalità. Ciò che si vede non coincide necessariamente con ciò che tutti vediamo, ma la centralità che Kinkaleri dà a questa visione ci fa piombare, come stralunati protagonisti, al centro della loro impossibile scena.