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30
settembre 2008
arteatro_opinioni Famiglie, donuts, alveari…
arteatro
L’estate dei festival dedicati allo spettacolo contemporaneo si è aperta con accese polemiche e dibattiti sul senso del proprio operare. Dopo tante parole viene da chiedersi: in fondo, non è più giusto parlare di un vuoto di visioni?...
“Perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia non sarà mai un vero uomo”. Così dice, nel Padrino I, Don Vito Corleone al figlio Sonny, che si è lasciato sopraffare da un afflato di emotività durante una trattativa di lavoro. Insomma: lavoro, famiglia ed etica sotto un unico tetto? Diverte che un appello simile provenga in fondo dal titolo-invito, Noi siamo una famiglia, che ha suggellato la nuova edizione del festival di Dro dedicato allo spettacolo contemporaneo, edizione diretta da Dino Somadossi e Barbara Buoninsegna, e ospitata ancora una volta in Trentino negli spazi spettacolari della Centrale Idroelettrica di Fies.
L’estate dei festival teatrali si è aperta alla rovescia, con tentativi di bilanci e autoanalisi sul senso del proprio operare. Dietro l’alibi delle dimissioni improvvise di Olivier Buoin, e in realtà di fronte alla evidente crisi di disegni curatoriali forti (fatte rare eccezioni) e di traiettorie capaci di segnare uno scarto di visioni nell’ambito delle esperienze artistiche che scelgono lo spazio del liveness, l’edizione decapitata di Santarcangelo dei Teatri ha cercato di dare una possibile risposta a suon di interrogazioni in differita e rilasci lenti (www.altrevelocita.it). Oggi, a tre mesi di distanza, continuano a ronzare nelle orecchie le parole dell’artista e filosofa Snejanka Mihaylova: “E se la morte è già avvenuta? Se la chiamata è un’altra volta legata al fatto di non riconoscere il fatto come tale? […] Se ciò che si desidera è il contrario di ciò che si ottiene, mi chiedo e vi chiedo a questo punto vale la pena di agire? Qual è il senso di un’azione se non la sua efficacia? Non basta il suo aspetto simbolico. O basta?”
Dro a distanza formula la sua risposta, avallata da una situazione di fatto: Drodesera è un festival a gestione familiare. È noto: siamo in tempi di crisi identitaria della famiglia, il cui statuto istituzionale è sembrato seriamente in crisi se migliaia di cattolici si sono mossi per condurre la loro battaglia pubblica contro i Dico (e beffa vuole che sia anche il nome di un noto discount). Posizioni entrambe tese a salvaguardare il discorso del Padrone – potremmo dire con Lacan filtrato da Žižek – discorso il cui risvolto osceno, vale a dire la controscena delle sua disgregazione, non fa altro che consolidarne l’esistenza istituzionale.
Ma il fatto è che in fondo la famiglia accontenta un po’ tutti. Nel testo di presentazione del festival si stima come un valore da salvaguardare, sia che si tratti di quelle allargate che di quelle ristrette: l’importante è stare un po’ e un po’. Quindi è tanto giusto ammiccare al nostalgico atavismo dei legami di sangue che alla dimensione allargata e intergenerazionale, così a suggellare che se Bridget è la figlia di Eric mentre sua madre è ora sposata con il fratello, in fondo va bene per tutti. Si direbbe: un colpo al cerchio e uno alle botte.
Non di meno, il senso metaforico del discorso che si cela tra le righe della presentazione è meno fantasmatico di quello che si potrebbe credere. A un punto la metafora si scioglie apertamente: “Anche nella live art, dal teatro alla performance, ci ritroviamo dinnanzi a nuove realtà, a differenze di generi che cambiano velocemente, si trasformano. A famiglie che non sembrano più riconoscibili in quanto tali, a realtà in cerca di identità che credono di averne perduto la matrice”. Quindi valgono sia i legami e le radici che le recisioni generazionali, limiti entro cui si muove quel luogo comune che fa, da anni, arroccare il teatro su una finta questione che spinge a dover sempre ragionare in termini di tradizione e innovazione: “Una nuova generazione di performer e creativi arriva a stravolgere un intero sistema”. Verrebbe da chiedersi a quale sistema si stia facendo riferimento, forse all’ennesima distinzione tra alveari creativi per artisti Big, e novellini da sfruttare con un budget risicato con il ricatto della vetrina e della visibilità. Poi meglio non entrare nel merito dell’impennata teorica che il testo raggiunge includendo la nozione di social drama.
Allora non è forse arrivato il momento di porre le basi per un dibattito culturale centrato sulla figura del curatore, che non è né un capofamiglia, né un direttore amministrativo, né un politico: dunque cosa?
Parallelo al festival di Dro, che negli ultimi anni era apparso come il luogo più interessante del panorama italiano e che anche quest’anno si è distinto per aver presentato un cartellone articolato, da segnalare è il progetto neovincitore del bando nuove creatività dell’Eti, Fies Factory One, che “nasce come strumento reale per lo sviluppo di live art: nuove strategie dove l’incontro è continuo stimolo reciproco, dove le logiche di mercato non soffocano il percorso creativo, dove l’esito finale può assumere forme diverse. Dove anche le ciambelle senza buco riescono bene”.
Di certo Sonia Brunelli, Francesca Grilli, Dewey Dell, pathosformel, Teatro Sotterraneo, i cinque artisti selezionati per il progetto, realtà che – detto per inciso – perseguono un proprio rigoroso percorso di ricerca, si sono resi conti che la strategia promozionale, che li accomuna sotto il progetto-chioccia dall’eco warholiano, li ha trasformati in donuts con praline, farciture di glassa e cioccolata, o scaglie di vaniglia. L’immagine non è divertente se a ogni nome corrisponde una ciambella alla quale si auspica anche di sbagliare, perché se l’impasto non dovesse risultare abbastanza colloso prima dell’infornata, nessun problema: c’è la famiglia-paracadute. Allora si attenderà di rimescolare insieme zucchero a velo, latte e olio fino a ottenere un insieme quanto più omogeneo. E non è questione di non essere ironici! In realtà la cosa grave non è soltanto legata alle conseguenze che politiche culturali da fast food possono produrre alla propria immagine, ma al fatto che gli artisti con le loro opere alimentano un disegno più grande. Non c’è forse in gioco una responsabilità più ampia legata alla relazione che l’opera stabilisce con il contesto in cui si cala?
Ma allora vale la pena di guardare al momento clou della Factory: L’evento (3-5 ottobre). La Centrale di Fies infatti verrà aperta “per focalizzarsi sulla natura del progetto Fies Factory One interrogandone alcuni principi costitutivi: lo sviluppo nel tempo; la condivisione di uno spazio; l’idea di accompagnamento di processi creativi; l’incontro con altre realtà, altri linguaggi, altre modalità”. Ognuno dei cinque artisti occuperà una spazio della Centrale e vi accoglierà alcuni ospiti, così che in ogni stanza sarà possibile dare vita a micro-eventi della durata di dieci minuti e a momenti aperti al pubblico: una sorta di spazio di giochi dei bambini, un ritorno all’infanzia controllata nei girelli e nei box. In attesa che si concretizzi questa opportunità, è bene sospendere il discorso. Quindi buona visione.
L’estate dei festival teatrali si è aperta alla rovescia, con tentativi di bilanci e autoanalisi sul senso del proprio operare. Dietro l’alibi delle dimissioni improvvise di Olivier Buoin, e in realtà di fronte alla evidente crisi di disegni curatoriali forti (fatte rare eccezioni) e di traiettorie capaci di segnare uno scarto di visioni nell’ambito delle esperienze artistiche che scelgono lo spazio del liveness, l’edizione decapitata di Santarcangelo dei Teatri ha cercato di dare una possibile risposta a suon di interrogazioni in differita e rilasci lenti (www.altrevelocita.it). Oggi, a tre mesi di distanza, continuano a ronzare nelle orecchie le parole dell’artista e filosofa Snejanka Mihaylova: “E se la morte è già avvenuta? Se la chiamata è un’altra volta legata al fatto di non riconoscere il fatto come tale? […] Se ciò che si desidera è il contrario di ciò che si ottiene, mi chiedo e vi chiedo a questo punto vale la pena di agire? Qual è il senso di un’azione se non la sua efficacia? Non basta il suo aspetto simbolico. O basta?”
Dro a distanza formula la sua risposta, avallata da una situazione di fatto: Drodesera è un festival a gestione familiare. È noto: siamo in tempi di crisi identitaria della famiglia, il cui statuto istituzionale è sembrato seriamente in crisi se migliaia di cattolici si sono mossi per condurre la loro battaglia pubblica contro i Dico (e beffa vuole che sia anche il nome di un noto discount). Posizioni entrambe tese a salvaguardare il discorso del Padrone – potremmo dire con Lacan filtrato da Žižek – discorso il cui risvolto osceno, vale a dire la controscena delle sua disgregazione, non fa altro che consolidarne l’esistenza istituzionale.
Ma il fatto è che in fondo la famiglia accontenta un po’ tutti. Nel testo di presentazione del festival si stima come un valore da salvaguardare, sia che si tratti di quelle allargate che di quelle ristrette: l’importante è stare un po’ e un po’. Quindi è tanto giusto ammiccare al nostalgico atavismo dei legami di sangue che alla dimensione allargata e intergenerazionale, così a suggellare che se Bridget è la figlia di Eric mentre sua madre è ora sposata con il fratello, in fondo va bene per tutti. Si direbbe: un colpo al cerchio e uno alle botte.
Non di meno, il senso metaforico del discorso che si cela tra le righe della presentazione è meno fantasmatico di quello che si potrebbe credere. A un punto la metafora si scioglie apertamente: “Anche nella live art, dal teatro alla performance, ci ritroviamo dinnanzi a nuove realtà, a differenze di generi che cambiano velocemente, si trasformano. A famiglie che non sembrano più riconoscibili in quanto tali, a realtà in cerca di identità che credono di averne perduto la matrice”. Quindi valgono sia i legami e le radici che le recisioni generazionali, limiti entro cui si muove quel luogo comune che fa, da anni, arroccare il teatro su una finta questione che spinge a dover sempre ragionare in termini di tradizione e innovazione: “Una nuova generazione di performer e creativi arriva a stravolgere un intero sistema”. Verrebbe da chiedersi a quale sistema si stia facendo riferimento, forse all’ennesima distinzione tra alveari creativi per artisti Big, e novellini da sfruttare con un budget risicato con il ricatto della vetrina e della visibilità. Poi meglio non entrare nel merito dell’impennata teorica che il testo raggiunge includendo la nozione di social drama.
Allora non è forse arrivato il momento di porre le basi per un dibattito culturale centrato sulla figura del curatore, che non è né un capofamiglia, né un direttore amministrativo, né un politico: dunque cosa?
Parallelo al festival di Dro, che negli ultimi anni era apparso come il luogo più interessante del panorama italiano e che anche quest’anno si è distinto per aver presentato un cartellone articolato, da segnalare è il progetto neovincitore del bando nuove creatività dell’Eti, Fies Factory One, che “nasce come strumento reale per lo sviluppo di live art: nuove strategie dove l’incontro è continuo stimolo reciproco, dove le logiche di mercato non soffocano il percorso creativo, dove l’esito finale può assumere forme diverse. Dove anche le ciambelle senza buco riescono bene”.
Di certo Sonia Brunelli, Francesca Grilli, Dewey Dell, pathosformel, Teatro Sotterraneo, i cinque artisti selezionati per il progetto, realtà che – detto per inciso – perseguono un proprio rigoroso percorso di ricerca, si sono resi conti che la strategia promozionale, che li accomuna sotto il progetto-chioccia dall’eco warholiano, li ha trasformati in donuts con praline, farciture di glassa e cioccolata, o scaglie di vaniglia. L’immagine non è divertente se a ogni nome corrisponde una ciambella alla quale si auspica anche di sbagliare, perché se l’impasto non dovesse risultare abbastanza colloso prima dell’infornata, nessun problema: c’è la famiglia-paracadute. Allora si attenderà di rimescolare insieme zucchero a velo, latte e olio fino a ottenere un insieme quanto più omogeneo. E non è questione di non essere ironici! In realtà la cosa grave non è soltanto legata alle conseguenze che politiche culturali da fast food possono produrre alla propria immagine, ma al fatto che gli artisti con le loro opere alimentano un disegno più grande. Non c’è forse in gioco una responsabilità più ampia legata alla relazione che l’opera stabilisce con il contesto in cui si cala?
Ma allora vale la pena di guardare al momento clou della Factory: L’evento (3-5 ottobre). La Centrale di Fies infatti verrà aperta “per focalizzarsi sulla natura del progetto Fies Factory One interrogandone alcuni principi costitutivi: lo sviluppo nel tempo; la condivisione di uno spazio; l’idea di accompagnamento di processi creativi; l’incontro con altre realtà, altri linguaggi, altre modalità”. Ognuno dei cinque artisti occuperà una spazio della Centrale e vi accoglierà alcuni ospiti, così che in ogni stanza sarà possibile dare vita a micro-eventi della durata di dieci minuti e a momenti aperti al pubblico: una sorta di spazio di giochi dei bambini, un ritorno all’infanzia controllata nei girelli e nei box. In attesa che si concretizzi questa opportunità, è bene sospendere il discorso. Quindi buona visione.
piersandra di matteo
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 52. Te l’eri perso? Abbonati!
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