Un evento a metà strada tra l’happening, il teatro e l’allestimento espositivo. Ideato dal collettivo artistico Cabaret Elettrico, fondato dal talentuoso disegnatore Riccardo Mannelli, noto al grande pubblico per i suoi contorti ritratti di politici su La Repubblica. La mostra-spettacolo utilizza, con innegabile impatto, una strategia di disagio per superare l’ordinaria retorica imperante (magari nelle forme di un compiaciuto feticismo visivo), anche sulle scene dei circuiti più ‘off’. Rientrano nell’operazione tanto il ricorso a una messinscena frenetica in puro stile dada, quanto l’impiego accorto di mezzi multimediali, con la parte video curata da Marco Michiorri.
Indagine visiva sulla violenza, lo spettacolo ne coglie la persistenza ancestrale nel passaggio elettrificato attraverso i mezzi di comunicazione di massa, nel tentativo di cortocircuitarli. In un’ora di aggressione sonora e visiva -con innegabili echi della vertigine nera delle pasoliniane Giornate di Salò– tra corpi nudi che si dibattono dietro teli di nylon o marciano marzialmente ridicoli, ballerine in costumi disneyani abbattute a colpi di mitra o estemporanei interventi urlati di un debordante inclassificabile come Remo Remotti, il tema della guerra viene svolto nella forma di una progressiva degradazione umana. Giunta al suo culmine, l’operazione collassa tuttavia consapevolmente su se stessa, proprio nel far prendere atto dell’irrimediabile ritardo e inadeguatezza di ogni rappresentazione artistica della violenza.
Non solo rispetto all’essenziale mostruosità del reale, ma anche alla sua immagine còlta da un occhio amatoriale e privo di velleità artistiche (sia quello di un terrorista che riprende a video la decapitazione di un ostaggio, o di un militare americano che scatta foto-ricordo ai prigionieri brutalizzati nel carcere di Abu Ghraib).
Da questa impasse della rappresentazione –quella che giustamente spinge in un editoriale su Exibart Nicola Angerame, sulla scia di Paul Virilio, a chiedersi quale arte “potrà farci sentire il dolore senza ridurlo a effetto speciale”– il Cabaret Elettrico tenta allora di darsi una via d’uscita nel dedicare l’ultima ‘stanza di guerra’ alla figura abilmente falsificata (con tanto di sezione giornalistica e illustrazioni del solito Mannelli, organizzata al piano superiore del teatro) di Anagnina Sanchez. Un’improbabile santona “puta y curandera” che, nei sotterranei della metropolitana romana, con le sue cure converte implacabili militaristi in penitenti pacifisti. Nell’ironia feroce che irride la violenza del potere e la distorsione della realtà a cui sono usi i mezzi di comunicazione, si ritrova così quella forza sovversiva della risata che Enrico Baj ha una volta definito ultima salvezza dell’arte: una risata da cabaret, cupa e intensa.
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luca arnaudo
spettacolo visto il 6 maggio 2005
[exibart]
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