Danza, musica e vj set. Come dire un’opera d’arte totale, che ricerca non tanto il wagneriano convergere in un’unica sintesi dei diversi linguaggi artistici, ma un gioco combinatorio dei vari elementi in una poetica dalla struttura contrappuntistica. Vicina, per esempio, a quella elaborata dal fortunato binomio Balanchine-Stravinsky. Proprio dal loro Jeu de cartes, del 1937, è mutuato il titolo di questo lavoro di Matteo Levaggi: e non solo il titolo, se egli afferma di aver ricercato un linguaggio “totale”, che “prende, ruba, da tutto e da tutti”, spiega.
Atmosfere sonore gelide, sintetiche, accompagnano le immagini di un video che presenta una natura pre-storica, ancora vincolata alla dimensione del mito, avvolta in se stessa come un ouroboros. Lo sguardo striscia tra campi innevati e sorvola foreste secolari mentre sul palco assistiamo a una danza che sembra evocare l’aggregarsi degli atomi in molecole o il formarsi dei sistemi planetari. E’ una coreografia che non ha bisogno di appoggiarsi a un ritmo musicale -che è del tutto assente- perché sa generarne uno da sé, rendendo in qualche modo presente l’eterno rito della creazione. La musica è appunto priva di ritmo e di melodia, un’onda lunga aspramente noise, che pare dar voce al sofferto passaggio dall’inorganico all’organico, dal caos al kosmos. Quando poi le immagini del vj set ci mostrano paesaggi post-industriali dove i tralicci dell’alta tensione fanno da contraltare agli alberi maestosi visti alcuni frame prima, i ballerini entrano in scena con costumi futuristici e minimali.
Il raffreddamento estetico del nuovo paesaggio suburbano mantiene immutata quella vitalità che già caratterizzava la prima parte dello spettacolo e che Levaggi esprime evitando “contrazioni e piegamenti troppo audaci del busto” in favore di “una forte spinta del bacino che muove tutto il corpo e che dà al movimento un senso di altezza come se si dovesse stare sempre a galla”. Un movimento che ricorda la linea serpentinata della pittura manierista e delle fiammeggianti figure di El Greco.
Gli elaborati giochi di luce intervengono su uno spazio costruito da architetture imponenti quanto essenziali, che ingabbiano i protagonisti dello spettacolo, quasi costringendoli alla comunicazione. I danzatori infatti sembrano dialogare fra loro scambiandosi di tanto in tanto un abbraccio o scostandosi delicatamente. Il video sulla destra della scena ci offre un punto di fuga con immagini prese da un treno in corsa e -nonostante gli interventi del motion graphics– lo sguardo conserva una vocazione fortemente narrativa. Mentre è il balletto a sublimare nell’astrazione espressioni archetipe dell’umano.
luca vona
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