Se è vero, com’è vero, che non c’è niente di più danzabile delle passioni estreme, nulla meglio del mondo scespiriano (che delle passioni è il cantore) può immediatamente risultare una base ideale sulla quale edificare il genere del balletto narrativo. Più difficile rendere in chiave astratta le passioni e la storia che le alimentano, mantenendo una coerenza di leggibilità. L’Otello di Opus Ballet firmato dalla coreografa Arianna Benedetti (visto al Teatro Rifredi di Firenze), riesce magistralmente a restituirci in filigrana tutta la trama della ultranota opera di Shakespeare senza descrivere, ma solamente con i movimenti di danza e con una gestualità intrisa di senso. Benedetti non cerca altri appigli, né scenografici, né mimici. Un fazzoletto è l’unico oggetto simbolico. Sulla nuda scena le basta una sapiente drammaturgia di luci (come quelle di un vero maestro del light designer quale è Carlo Cerri) e l’adesione dei giovani corpi di una compagnia di eccellente preparazione tecnica ed espressiva sui quali modellare il suo vocabolario di danza, per dare nuove visioni ad un’opera troppe volte letta nelle forme di un melodramma romantico a scapito della sua effettiva forza espressiva. Quella che invece, la danza può diversamente restituire, ancor più se dettata da un’urgenza drammaturgica. La percepiamo in Arianna Benedetti con questo lavoro creato nel 2014 e ancora modernissimo nella struttura e nella tematica. Ella punta lo sguardo sulla violenza dell’attualità, su quella gelosia “…che diviene patologia e fa sì – scrive la coreografa – che gli uomini, resi incapaci di vedere l’amore dalla brama di possesso, si arroghino il diritto di punire con la morte le loro donne, le loro vittime”. Il femminicidio, dunque, è il cardine della sua lettura. Moltiplica Desdemona in tante donne ai bordi dei quadrati di luce, pronte al match e ad alternarsi nello scambio dei ruoli, frementi nei gesti, fluide come brandelli nei duetti prepotenti coi maschi, ricalcitranti nella resistenza al loro incalzare, e nella mortificazione delle reiterate braccia intrecciate e dei volti abbassati. Riproduce Otello e Desdemona in un’altra coppia trasferendo in essa il presagio dell’atto finale frutto di quel sospetto instillato da Iago, il personaggio che costruisce la trama nel segno dei sentimenti, tra gelosia e invidia. Il perfido, nell’efficace intuizione di Benedetti, è sdoppiato in due insinuanti figure-ombra: l’una, mentale, continuamente bisbigliante all’orecchio; l’altra muscolare, espressione della forza fisica.
Con momenti di silenzio e di stasi, il flusso ininterrotto di movimenti e sequenze che coniugano il gusto neoclassico col più screziato linguaggio contemporaneo è nel segno della contaminazione anche musicale di Massimo Buffetti che crea partiture elettroniche evocanti atmosfere e stati d’animo. Dentro il magma di suoni cupi e metallici, di voci, rumori e screziature sonore, irrompe improvvisa e solenne la musica di Verdi dell’Otello con l’aria dell’Ave Maria. Il canto struggente vibra tutto nel corpo della Desdemona vestita di bianco dell’intensa Jeniffer Rosati che, supplichevole, infranta, strisciante, gira attorno all’immobilità del Moro, come una bambola rotta. Sul ritmo di una musica techno l’uomo le spezzerà l’amore con colpi nell’aria dopo che la trascinante danza del gruppo a torso nudo, che insegue, strascica, lancia sulle spalle e oltraggia le donne, ci avrà ricordato figurazioni da Ratto delle Sabine. E quando si sarà compiuto l’insano assassinio, una potente immagine fissa la presenza di Desdemona illuminata nelle sole gambe a terra e il resto del corpo nascosto nel retroscena. Sulla disperazione di Otello si accaniranno due danzatrici con gesti netti, convulsi, accusatori, per placarsi dopo averlo spinto sull’orlo del proscenio e precipitare. Ottima la resa dei nove danzatori di Opus Ballet – Aura Calarco, Boris Desplan, Lorenzo Di Rocco, Gianmarco Martini Zani, Stefania Menestrina, Giulia Orlando, Riccardo Papa, Jennifer Rosati, Gabriele Vernich – nel restituirci con energia e poesia una danza in cui si colgono i moti dell’animo umano come magistralmente tratteggiati e indagati da Shakespeare, e quella “rabbia di Desdemona che – afferma Arianna Benedetti – è di tutte le donne costrette all’impotenza, umiliate e offese”.
Giuseppe Distefano