Prima una mano, poi il braccio, la testa. Infine tutto il corpo. Sbuca da un anfratto, dal taglio di una fessura di un fondale nero, proveniente da un buio ancestrale. Un corpo femminile slanciato, petto nudo e pantaloni blu. Lungo il vasto corridoio bianco attraversato appena prima da una musicista collocatasi lentissimamente davanti al pianoforte, e con il pubblico disposto lungo i due lati, la nascente figura avanza a piccoli scatti nel silenzio totale, illuminata dentro un quadrato di luce che si espanderà appena si udranno le prime note musicali de L’après-midi d’un faune di Debussy. Procede in avanti, con saltelli, scatti delle braccia, rannicchiandosi, stesa e ferma a terra, alzandosi ed ergendosi sulle mezze punte felpate. Nel formarsi del gesto e dell’energia che lo crea tra una giuntura e un respiro, assume la fierezza di un animale, lo sguardo di un umano, la postura di un combattente destatosi dal letargo dei sensi. Scomparendo nel fondo lascia posto al fauno pezzato che entra dalla stessa postazione e con le stesse movenze. Ricoperto di piume e con capelli lunghi e una leggera barba bianca, è subito riconducibile all’iconografia classica del satiro caprigno, qui ingrigito. Procede con soste e appostamenti, guardando sempre indietro. Scattante, di profilo, con le braccia in avanti, sostando in ginocchio, guarda dritto negli occhi del pubblico. Cerca l’uomo, il suo sguardo, la sua anima. Poi si volge altrove, riprende il cammino. La traiettoria del suo sguardo si riverbera in tutto il corpo, nella sua flessuosità dapprima controllata (con vaghi echi delle posture nijinskyiane) che acquisisce sempre più dinamicità all’ingresso della componente sonora – qui nella versione per solo pianoforte eseguita da Giulia Contaldo -. Inarca il grembo e la schiena, rotola, si solleva con un braccio ruotando a terra, scorre avanti e indietro, e in un crescendo concitato e tenero raggiunge la ninfa (o è il suo doppio?), e scompaiono lasciando tracce di sottili impronte nell’aere.
Prélude à l’après-midi d’un faune – Virgilio Sieni – ph Filippo Manzini
Sono invece corpi alquanto dissimili quelli dei due anziani che ora appaiono da una porta laterale portando sulle spalle una grande colonna antica, staccata, forse, da un tempio greco. Hanno orecchie puntute questi due fauni di oggi, corpi carichi di vissuto portando il peso della storia che li sovrasta. Sempre sulla musica di Debussy articolano gesti lenti, muti, delicati, appena accennati nell’aprire le braccia, tenderle in avanti o in alto, piegando stentatamente le gambe, mettendo una mano sulla spalla, sorreggendo ora l’uno ora l’altro la colonna, infine adagiandosi accanto ad essa deposta a terra, e addormentarsi. Lega mitologia e contemporaneità Virgilio Sieni in questo suo Prélude à l’aprés midi d’un faune, inedita versione della mitica figura ispirata al poema di Mallarmé e descritta dalla musica di Debussy, e riconducibile alla rivoluzionaria danza di Vaslav Nijinsky . “Gli interpreti, dissimili tra loro per età e capacità fisiche – spiega il coreografo –, amano ritrovarsi in questo cammino. …Due viaggi che risuonano l’uno nell’altro, uno visibile e l’altro nascosto”. Nel riprendere la vicenda del fauno intrigato e poi abbandonato dalle ninfe, la coreografia di Sieni (andata in scena a Firenze nella sede di Cango per il festival “La democrazia del corpo”) annulla quella connotazione erotica che tanto scandalizzò alla prima parigina e che ha caratterizzato altre celebri versioni. La sua è un’esplorazione sul risveglio delle risonanze dei moti interiori, dell’istinto naturale governato dall’umana cognizione del trascorrere della vita e del guardare oltre. Un oltre che affiora nel gesto e nelle giunture del corpo guizzante e del corpo fragile, entrambi depositari di memorie e posture generatrici di mappe dell’anima, di nuova consapevolezza e conoscenza. Per riscoprire “il fauno che è in noi”. E sono di toccante verità gli anziani Franco Bozzi e Otello Cecchi provenienti dall’”Accademia sull’arte del gesto””diretta da Sieni; e sono di poetico bagliore i danzatori Maya Oliva e Andrea Palumbo.
Giuseppe Distefano