Categorie: arteatro

IPERTEATRO 2019

di - 24 Gennaio 2019
Nata a Monfalcone, Marta Cuscunà debutta a Londra nel 2006 con uno spettacolo con pupazzi di Joan Mirò. Tornata in Italia inizia un lavoro di teatro di impegno sociale, debuttando nel 2009 con È bello vivere liberi! Progetto di teatro civile per un’attrice, cinque burattini e un pupazzo, con cui si aggiudica il Premio Scenario per Ustica. Nasce poi la trilogia sulla resistenza femminile, con cui ha girato l’Europa. Lavorando con pupazzi, maschere e teste parlanti e dando voce a numerosi personaggi, Cuscunà crea dispositivi scenici insieme nuovi e antichissimi.
Che cosa ti ha spinto al teatro di figura?
«All’inizio è stata una scelta istintiva. Poi ci sono state due persone cruciali per la mia vita, che mi hanno mostrato che ero portata per questo linguaggio. Nel 2004 feci un provino con Roberto Scarpa, allora direttore di Prima del Teatro – Scuola Europea per l’arte dell’attore, per poter frequentare un corso di teatro musicale. Nel pezzo che avevo preparato, utilizzavo oggetti per costruire figure nello spazio. Roberto Scarpa mi consigliò di lasciar perdere il teatro musicale e di iscrivermi al corso di teatro visuale, che quell’anno era stato affidato per la prima volta a Joan Baixas. Davanti al mio cocciuto rifiuto di cambiare scelta, Scarpa mi offrì una borsa di studio per frequentarli entrambi. Alla fine del suo corso, Joan Baixas mi disse che il teatro visuale sembrava essere la mia strada e che se ne avesse avuto la possibilità, mi avrebbe chiamato a lavorare con lui. Un anno dopo ero al suo fianco, alla Tate Modern Gallery di Londra per la rimessa in scena di Merma Neverdies, lo spettacolo con pupazzi ispirati all’Ubu Re di Jarry, che Joan aveva realizzato negli anni ’70, insieme a Mirò».
Chi sono e sono stati i tuoi modelli e maestri?
«Oltre a Joan Baixas, per me è stato fondamentale studiare drammaturgia con José Sanchis Sinisterra. Christian Burgess e Danny Mc Grath sono stati dei punti di rifermento dal punto di vista registico, per la creazione di progetti inediti. Attraverso il lavoro di Giuliana Musso, ho approfondito i metodi del teatro d’inchiesta e di narrazione. Christiane Jatahy è stata il mio ultimo faro in ordine di tempo e con lei ho affrontato per la prima volta la commistione tra linguaggi teatrali e cinematografici».
In Italia che considerazione c’è del teatro di figura, e all’estero come vanno le cose?
«In Italia è un settore ai margini: nei percorsi di formazione delle Accademie d’Arte Drammatica non ci sono corsi di studio dedicati alle tecniche del teatro visuale, nemmeno a quelle tradizionali: un patrimonio per il quale siamo conosciuti in tutto il mondo e che stiamo tristemente perdendo. Sono rare le stagioni teatrali che offrono spettacoli di teatro di figura per adulti. In generale mi sembra che ci sia ancora un pregiudizio tra spettatori e programmatori che ghettizza il teatro visuale nei cartelloni per l’infanzia. All’estero invece ci sono festival e accademie di fama internazionale dedicate esclusivamente a questi linguaggi e alla loro evoluzione nella contemporaneità».
Marta Cuscunà Foto di Daniele Borghello
Sono passati quasi 10 anni dal Premio Ustica, cos’è cambiato da allora?
«Centrale Fies, il centro di produzione per l’arte performativa di Dro, è diventata la mia casa artistica.
Ora ho co-produttori importanti che sostengono i miei lavori come il CSS Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia, il Teatro Stabile di Torino e lo Stabile di Bolzano. Ho iniziato a portare i miei lavori anche all’estero e a Lisbona ho trovato anche i miei primi co-produttori internazionali: il São Luiz Teatro Municipal e A Tarumba Teatro de Marionetas. Questa fiducia nei miei confronti mi ha permesso di sperimentare con grande libertà e di applicare alla creazione teatrale un metodo che è molto simile a quello della produzione industriale: lavorare per prototipi significa mettere in conto l’errore. È un processo molto lungo e dispendioso che non sarebbe possibile senza grandi sforzi economici e altrettanto grande fiducia nei miei confronti».
Com’è nato e come funziona il tuo rapporto con Centrale Fies?
«Grazie al progetto Fies Factory, dal 2009 sono artista residente a Centrale Fies, insieme a Sotterraneo e Anagoor. All’inizio del mio percorso indipendente, cercavo una struttura che non si limitasse a distribuire lo spettacolo con cui avevo vinto il Premio Scenario per Ustica, ma che diventasse per me un punto di riferimento e di crescita per il futuro. In quest’ottica il progetto Fies Factory mi era sembrato un vero miraggio perché si basava su un rapporto di cura di almeno tre anni, durante i quali l’artista non era obbligato a produrre opere ma, volendo, poteva dedicarsi esclusivamente alla ricerca e allo studio. Tra gli artisti coinvolti c’erano Pathosformel (così ho conosciuto Paola Villani con cui lavoro dal 2015), Francesca Grilli, Sotterraneo. Nel 2009 chiesi alla direttrice artistica Barbara Boninsegna di poter essere inclusa e contemporaneamente lo fecero anche Anagoor e Codice Ivan. Oltre a condividere gli spazi della Centrale, il progetto Fies Factory prevede anche la condivisione della comunicazione e della distribuzione degli spettacoli che vengono presentati insieme come il risultato di una generazione».
Resistenza femminile, partigiani, minoranze: spettacoli dai forti temi politici e molto attuali, come scegli di affrontare un determinato argomento?
«Vengo da una famiglia in cui l’impegno civile e politico è pane quotidiano e ho la fortuna di fare un mestiere che può diventare strumento di lotta. Non credo di essere io a scegliere i temi dei miei spettacoli, sono loro che mi vengono addosso perché sono parte della realtà in cui vivo. Sono gli stessi temi che mi infervorano e mi portano a manifestare in piazza. Il teatro è uno dei modi che ho per condividerli. Per difendere quello che per me è importante».
In ogni spettacolo c’è un diverso dispositivo scenico, dalle pupazze delle Clarisse alle teste di Sorry, boys. Come funziona il processo di creazione?
«Il concept dei dispositivi è legato alla storia da raccontare, li “vedo” ancora prima di iniziare a scrivere la drammaturgia e ha che fare con la condizione in cui vivono i protagonisti della storia. Di solito ha a che fare con il concetto di soglia: il momento in cui i protagonisti perdono la libertà e diventano “pupazzi” nelle mani dei loro carnefici (come nel caso di Ondina nel lager nazista o delle Clarisse in clausura forzata) oppure quando sono messi con le spalle al muro da scelte che li escludono e li spiazzano, come nel caso delle teste mozze nei trofei da caccia di Sorry, boys».
C’è qualcuno che ti aiuta nelle realizzazioni?
«Assolutamente sì: i dispositivi sono progettati e realizzati da scenografe. Negli ultimi due spettacoli in particolare ho collaborato con Paola Villani, che riesce a creare delle macchine complesse a livello ingegneristico, tenendo sempre conto delle esigenze della drammaturgia, dei limiti del mio corpo, della visibilità nei teatri ecc. Dal 2009 lavoro instancabilmente con Marco Rogante, che è stato assistente alla regia e alla drammaturgia di tutti i miei spettacoli e che è l’anello di congiunzione tra il mio lavoro di drammaturgia e quello di progettazione e realizzazione delle scenografe».
Marta Cuscunà Foto di Daniele Borghello
Ci sono anche spettacoli che ti vedono coinvolta come attrice senza dispositivi teatrali. Vedi un tuo futuro come attrice fuori dal teatro di figura?
«Il lavoro di attrice mi affascina molto ma mi fa sentire anche insicura. Provo grande sollievo a lavorare con pupazzi e creature meccaniche perché loro mi suggeriscono in modo chiaro cosa fare per animarli. Lavorare con loro, rende il mio stare in scena più facile: basta che io mi lasci guidare dalle loro caratteristiche meccaniche per costruire la partitura interpretativa».
Di cosa parla il nuovo spettacolo che ha debuttato a Udine?
«Il canto della caduta si ispira al mito di Fanes, un ciclo epico che fa parte della tradizione popolare della minoranza ladina che vive nelle valli centrali delle Dolomiti. Secondo l’antropologa Kläre French-Wieser, tre passaggi importanti dell’essere umano vengono raccontati in questo mito:
° Il passaggio dal diritto materno al patriarcato
° Il passaggio da un sistema pacifico a uno belligerante
° Il passaggio dalla cultura del totem (quella dei popoli cacciatori ancora in simbiosi con la natura e che riconoscono nell’animale totem il proprio antenato) alla cultura della miniera e dell’estrazione dalle montagne. Il mito di Fanes racconta, infatti, di un’età dell’oro in cui esseri umani e natura avevano un rapporto di alleanza che permetteva loro di vivere in pace e prosperità. In questa età dell’oro la guida del popolo era compito femminile. Poi arrivò un re straniero e le cose cambiarono per sempre. Il canto della caduta cerca di portare nuovamente alla luce il racconto perduto di come eravamo, di quell’alternativa sociale auspicabile per il futuro dell’umanità che viene presentata sempre come un’utopia irrealizzabile. E che invece, forse, è già esistita».
Progetti per il futuro?
«La tournée è una parte importante del mio lavoro: gli spettacoli hanno bisogno dell’incontro con il pubblico per esistere e radicarsi. Di solito impiego almeno un paio di anni per realizzarli e dopo il debutto ho bisogno di farli, di condividerli con tante persone. E poi è sulla circuitazione dei miei spettacoli che si basa tutto il mio sostentamento economico… Quindi per il futuro spero di avere lunghi mesi di repliche!»
Giulia Alonzo
Prossime date
Il canto della caduta
25 gennaio 2019 – Teatro Lavaroni, Artegna
29 gennaio 2019 – Teatro Herberia, Rubiera
15 e 16 febbraio 2019 – São Luiz Teatro Municipal, Lisbona (Portogallo)
22 febbraio 2019 – Teatro Viriato, Viseu (Portogallo)
27 febbraio 2019 – Teatro Comunale, Gries
12 e 13 marzo 2019 – Arena del Sole, Bologna
19-24 marzo 2019 – Teatro Gobetti, Torino
28 marzo 2019 – Teatro Cantiere Florida, Firenze
4 aprile 2019 – Teatro Pasolini, Cervignano

Sorry, boys
3 febbraio 2019 – Teatro Toselli, Cuneo
7 marzo 2019 – Teatro Comploy, Verona
13 aprile 2019 – Teatro La casa del Popolo, Castello d’Argile

Prossima puntata di Iperteatro 2019: Francesca Pennini

Dopo gli studi al Politecnico di Milano e all'Accademia di Belle Arti di Brera, collabora con diverse testate di teatro e arte. Studiosa di arti visive, design e spettacolo dal vivo, è particolarmente interessata alla ricezione e alla simbologia delle opere d'arte nella società contemporanea. Attualmente impegnata nello sviluppo del portale trovafestival.com, la cultura in movimento.

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