Categorie: arteatro

IPERTEATRO

di - 12 Febbraio 2019
Ferrarese classe 1984, Francesca Pennini fonda nel 2007 CollettivO CineticO, compagnia di danza in residenza al Teatro Comunale di Ferrara. CollettivO CineticO, che indaga il movimento tra arti visive e teatro sperimentale, dopo più di dieci anni, continua a immaginare nuovi dispositivi per coinvolgere il pubblico, tra ludicità e rigore tecnico.
Chi è Francesca Pennini?
«Tendo sempre a definirmi con un’identità collettiva, nel senso che la mia identità artistica è composta da una molteplicità di approcci e di persone. In questa difficoltà di autodefinizione, non mi sono mai sentita una danzatrice, ma piuttosto qualcosa di mutevole. Formalmente sono la direttrice di CollettivO CineticoO: mi occupo di tirare le fila e alimentare le urgenze che sento, sia condividendo la mia visione che leggendo le necessità vive nel gruppo e generando conseguenze».
Cos’è CollettivO CineticO?
«CollettivO CineticoO è un insieme di persone molto diverse tra loro sia per storia sia per velleità e profilo filosofico psicologico, e dalla reazione chimica tra queste diversità nasce l’eterogeneità dei lavori. È un terreno umano e professionale di sperimentazione in cui cambiare costantemente: in qualche modo CollettivO CineticoO è una compagnia abusiva nel mondo della danza».
Miniballetti, ph Marco Davolio
Che cosa vuol dire fare danza oggi in Italia?
«Da un punto di vista politico-professionale penso significhi resistere, non nel senso di stare fermi, ma reagire con una presa di posizione rispetto alle pressioni del sistema che fanno tendere a compromessi di costante riduzione. Questa è una delle conseguenze delle dinamiche di crisi legate soprattutto alla cultura e di cui la danza, come il teatro, soffre particolarmente perché è fatta di una grande quantità di persone e di mezzi. Quindi fare danza significa resistere a questo e a una serie di altre formule del sistema che impongono una grande produttività e grandi numeri di circuitazione creando conseguenze sulla tutela di una ricerca o una identità di un lavoro che ha il suo focus nell’anomalia. Quindi significa essere consapevoli delle esigenze di un lavoro e non approssimarlo alla griglia che viene imposta per farlo esistere, perché questo spesso significa non farlo esistere. Da un punto di vista artistico fare danza, che sia contemporanea o di ricerca, è mettere in discussione l’idea stessa di danza e rispondere al panorama artistico. Una grande apertura sulle possibilità formale in cui la danza si declina e si definisce. Significa proporre delle possibilità di visione, relazione e azione del corpo, discutendole. Mi sento “ottimista-nonostante-tutto” e credo che ciò che non è riconoscibile o appartenente a delle logiche o a dei canoni stia venendo apprezzato, che si stiano aprendo visioni e possibilità. Vorrei non fossero di nicchia e che questo potesse diventare un fenomeno culturale, sociale, non coreografico».
Questo ottimismo riguarda voi come CollettivO CineticoO e il rapporto che vi siete creati in questi anni con il vostro pubblico o riguarda tutto il mondo della danza?
«Il rapporto della danza con il pubblico è sempre un po’ sofferente. Penso che molta danza faccia fatica a entrare in dialogo con un pubblico di non addetti ai lavori, senza per questo diventare danza d’élite. La grande sfida è quella di entrare in dialogo con lo spettatore, spronarlo, accoglierlo e dargli nuove chiavi di lettura, perché altrimenti le conseguenze sono abbastanza tragiche: nel momento in cui manca un pubblico che non appartiene al mondo danza, si crea un circolo vizioso linguistico in cui la danza parla sempre più a sé stessa. Penso sia possibile che la danza contemporanea e di ricerca parli a un pubblico ampio. Non è un lavoro facile e va fatto in collaborazione con tutti i soggetti coinvolti, dagli organizzatori, ai critici, però la responsabilità deve essere sentita dagli artisti. Io ho un’ottima opinione degli spettatori che mi trovo davanti, non lo sento come un limite o come un carnefice. È fondamentale scommettere su chi hai dall’altra parte e farlo diventare protagonista».
Che ruolo ha il pubblico all’interno dei vostri spettacoli?
«È sempre un soggetto da considerare come se fosse un elemento scenico, al pari delle luci, dei corpi di chi è in scena, dell’aspetto musicale. La dinamica che si crea con la fruizione è integrata anche se è solo contemplativa, quando non si chiede allo spettatore di entrare in azione a tutti gli effetti. In alcuni casi, come in Amleto o I x I No, non distruggeremo (…) c’è una interazione dichiarata, ovvero ufficializziamo un coinvolgimento che non lascia scampo: sia che il pubblico decida di partecipare attivamente o no, con la scelta ci si deve fare i conti perché la performance mette con le spalle al muro. Questa è la grande risorsa dello spettacolo dal vivo, perché solo in questa compresenza si può veramente consumare qualcosa che non sarebbe tale visto a distanza o filtrato dai media: soprattutto oggi che le alternative ai sistemi di fruizione sono molte, rendere tangibile la “pericolosità” della compresenza e la possibilità di divertimento, rilancio e discussione sono opportunità da cogliere».
Viola Berlanda
Come nasce la creazione di un progetto, dal tema alla messa in scena?
«La raccolta dei pensieri, la fase preliminare a tavolino, è decisamente sproporzionata rispetto alla fase di sperimentazione pratica. Di solito è molto concettuale, nel senso che non si declina in una immagine o in un’idea di azione, ma solo in una rete di concetti e di parole chiave che vengono collegati l’uno all’altro e che piano piano si avvicinano ai vari aspetti che possono essere il movimento o le relazioni, qualcosa di concretizzabile. Dopo questa fase, che di solito dura dai sei mesi ai due anni, avviene un dialogo con Angelo Pedroni, il dramaturg della compagnia, in cui lui fa la pars destruens e cerca di distruggere le mie idee. Quello che sopravvive, che viene vaccinato e fortificato, inizia a trasformarsi in un metodo, in un sistema di lavoro, con cui poi andiamo in sala prove e iniziamo a lavorare con le altre persone. Comincia una fase di trenta, sessanta giorni, di sperimentazione e man mano il lavoro si delinea fino alla messinscena, che parte sempre dalla realtà con cui mi confronto, sia dei corpi sia dal risultato di questo metodo».
Le contaminazioni tra le diverse arti e culture, in che modo e quando entrano nella creazione? Penso a Benvenuto umano che ha forti riferimenti all’arte tribale e orientale.
«La volontà di andare a prendere riferimenti culturali ed estetici di altre culture o riferimenti arcaici rispetto alla nostra era già parte del percorso a tavolino. L’idea di contaminazione spesso è invece una conseguenza della diversità dell’apporto di ciascuno dei membri della compagnia e dona per forza prospettive impreviste. Spesso abbiamo fatto progetti completamente nuovi, come lavori circensi, teatro ragazzi, con gli anziani, piuttosto che giochi di società. I contesti nuovi impongono un’apertura apparentemente estranea e il richiamo ad altre figure artistiche».
La scelta dei dispositivi scenici in che fase arriva?
«Di solito nella fase del metodo. I dispositivi sono nati proprio come metodi per la creazione di altri lavori. Per esempio Cinetico4.4 funziona come un gioco di società ed è nato per la creazione di *Plek-, un lavoro sul senso della spiegazione. In altri casi il dispositivo è lo spettacolo stesso, per cui il regolamento della performance vive del sistema di pensiero che l’ha originato. In questo senso il dispositivo come performance o la performance come dispositivo riescono a incarnare in modo molto forte ed evidente i principi della filosofia di fondo del lavoro e la relazione tra i soggetti coinvolti. Tra cui la ludicità…Da un lato il fatto che il dispositivo sia ludico espone il regolamento stesso del gioco come una dichiarazione poetica; dall’altro lato innesca lo spettatore facendolo diventare giocatore, parte di un gioco vivo e imprevisto. Quindi una partecipazione diversa che ti dà il senso del live o addirittura della tifoseria».
CollettivO CineticoO ha più di dieci anni. Come siete cambiati e come ti vedi tra dieci anni?
«Sono passati molto velocemente e mi sembra sia cresciuto più per accumulo che in progressione. È una accumulazione di persone, di progetti e conoscenze, di principi che riconosco fin dall’inizio e che sento continuare come principi poetici che nel tempo hanno preso chiarezza, sono diventati più nitidi. Hanno preso un nome, ma riconosco che c’era già tutto: il gioco, le regole, il desiderio di rischio, la passione grafica per la scena, l’anarchia delle spiegazioni, la discussione dei ruoli, l’amore per il formato, il desiderio bruciante e vivo di incontrare nuovi corpi e nuove visioni…Fra dieci anni spero di essere come adesso, in continuo mutamento, non in una fase di stallo in cui i lavori iniziano ad annoiare e assomigliarsi, ma che possa costantemente cambiare direzione e in questo senso mantenere la stessa direzione mutevole.
Vorrei che ci fosse più ricambio e ora stiamo investendo in persone più giovani che entrino dentro il lavoro in prima persona per alimentarlo. Vorrei vivere in un contesto dove la dimensione culturale e il contemporaneo sono normalizzati, non elitari».
Giulia Alonzo
Prossime date

16-17 febbraio 2019
10 Miniballetti
FestivalTemporada Alta – Lima (Perù)
21 marzo 2019
Amleto
Teatro Odeon – Brescia

Dopo gli studi al Politecnico di Milano e all'Accademia di Belle Arti di Brera, collabora con diverse testate di teatro e arte. Studiosa di arti visive, design e spettacolo dal vivo, è particolarmente interessata alla ricezione e alla simbologia delle opere d'arte nella società contemporanea. Attualmente impegnata nello sviluppo del portale trovafestival.com, la cultura in movimento.

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