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Il teatro di Agrupación Señor Serrano (Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2015) è un teatro che non ammicca, ma che racconta in maniera onesta e stratificata una serie di mondi, dei quali vediamo il farsi direttamente in scena.
Ho incontrato Alex Serrano e Pau Palacios (nell’intervista li chiamerò A.S. e P.P.) a Roma, dove è stato presentato Birdie, nell’ambito di Romaeuropa Festival. Mi hanno generosamente accolto sul palcoscenico del Teatro Vascello e abbiamo conversato mentre sistemavano un’infinita quantità di piccoli animali in gomma, scheletro di questa nuova creazione, che ha al centro il tema della migrazione. Birdie è uno spettacolo dal temperamento jazz, è un lavoro che ci parla del qui e ora trasportandoci in un’altra dimensione, ci coinvolge il suo aspetto giocoso e citazionista, senza mai, però, distrarci dalla questione di fondo. È anche un’indagine sulla natura dell’immagine, alla Blow Up di Antonioni, dove si accostano un campo da golf, i flussi migratori degli animali e Gli Uccelli di Hitchcock.
Chi è il Señor Serrano?
A.S.: «La compagnia è stata fondata undici anni fa da me che mi chiamo Alex Serrano, e avevo deciso di chiamare me stesso Señor Serrano. Molto presto sono entrate altre persone a far parte della compagnia, a quel punto Señor Serrano ci andava troppo stretto ed è per questo che è stato aggiunto “agrupación”, per sottolineare il concetto di gruppo, di collettivo. Abbiamo deciso di conservare il primo nome con questa aggiunta. Si tratta, anche, di un gioco: era il 2006, un momento in cui la Spagna era in pieno boom economico e chiunque aveva una azienda, una holding con la quale fare cose, allora abbiamo deciso di partecipare a questo processo scegliendo il nome “agrupación”».
Avete anche degli incarichi ben precisi, da quello che ho visto nel vostro sito
A.S.: «Sì, io sono il Presidente della Repubblica».
P.P.: «Io il Primo Ministro».
A.S.: «E poi c’è la terza socia che si chiama Barbara (n.d.r Bloin) che è il Capo dello Staff. La compagnia è composta da noi tre, che siamo quelli che abbiamo iniziato per primi, e poi c’è un gruppo di otto persone che collaborano con noi e che sono i vari ministri».
Agrupación Señor Serrano
Il cinema e il video sono molto presenti nelle vostre produzioni, sia in quanto dispositivi che come contenuto: che cos’è il cinema per voi? Quali sono i vostri riferimenti cinematografici?
P.P.: «Abbiamo iniziato a fare video all’interno delle arti performative, venendo dal teatro. Abbiamo inserito il video da subito, perché ci siamo resi conto della possibilità che ci dava di trasmettere e spiegare delle cose che il linguaggio teatrale non ci permetteva. Il cinema ci piace molto, infatti, ci è più facile parlare di riferimenti cinematografici che di riferimenti teatrali, ma anche di riferimenti di arti visive, letteratura o della videoarte. A livello cinematografico ne abbiamo molti, non necessariamente che abbiano a che vedere direttamente con noi, da Christopher Nolan a David Fincher, ad esempio».
A.S.: «O più del mondo della videoarte Johan Grimonprez o Camille Henrot».
P.P.: «Ma anche i classici, nei nostri lavori ci sono stati riferimenti e strizzate d’occhio a Marlon Brando e Quarto Potere. In realtà tutta la storia del cinema ci da l’opportunità di prendere qualcosa e usarlo, nel nostro ultimo lavoro, Birdie, ad esempio, abbiamo Hitchcock. Si tratta di una costante per noi».
Nei vostri lavori sembra diventare vera la frase “facciamo che io ero” che usano i bambini quando giocano. Che ruolo ha l’elemento ludico nel vostro lavoro?
A.S.: «Il gioco, in fondo, è molto importante, perché, se ci fai caso, i bambini quando giocano, giocano e basta, e il loro è un gioco vero. Ci piace vedere dei bambini che giocano perché lo fanno veramente. Nel teatro più classico, nel teatro di prosa, succede qualcosa di diverso: si vuole rappresentare qualcosa, si fa vedere che si fa qualcosa. Ciò che ci piace del nostro teatro, ciò che cerchiamo di fare è che tutte le nostre azioni in scena siano vere. Quindi giocare, prendere una telecamera e tornare bambino, è tutto vero. Per noi sarebbe molto faticoso far finta di essere, ad esmpio, Anna Karenina, soprattutto perché c’è troppa distanza tra lei come personaggio di fiction e noi. Possiamo pensare a un meccanismo che simula Anna Karenina partendo dal gioco, ma non possiamo mettere direttamente lei nei nostri lavori, perché è situata troppo lontano».
P.P.: «Infatti noi non recitiamo, non interpretiamo, facciamo delle cose e le cose che facciamo le facciamo veramente. È nel momento in cui sono catturate dal video e manipolate che acquistano senso e diventano qualcosa di altro, ma il punto di partenza è sempre lo stesso, non c’è interpretazione. È come quando si gioca a calcio, si fa e basta, non si fa vedere che si gioca a calcio».
A.S.: «Nulla può essere male interpretato perché non c’è intenzione di mentire».
Agrupación Señor Serrano, Birdie
Il meccanismo è svelato ed è tutto un farsi davanti a un pubblico che diventa testimone e in qualche misura partecipa…
A.S.: «Certo, perché il teatro è esattamente questo. Ciò che cerca di fare il teatro con tutte le sue forze è farci credere che siamo a Mosca nel 1750 e che sto scrivendo una lettera a Anna Karenina da Parigi. In realtà è tutto il contrario: noi siamo qui che creiamo qualcosa e siamo consapevoli che il pubblico è lì, quindi ha molto senso il mostrare non solo ciò che facciamo ma in che modo lo facciamo, svelando, contemporaneamente, che questo atto è comune e che acquista senso quando “il come” viene svelato. Diciamo che “il come” è anche “il cosa”, è come il contenitore che è inscindibile dal contenuto. Questo per noi è fondamentale, dato che cerchiamo di scegliere argomenti che sono contemporanei ma che hanno molti livelli, è molto importante mostrare la realtà tanto quanto è importante far vedere come questa realtà viene costruita».
Qual è, quindi, la vostra relazione con lo spettatore?
P.P.: «Facciamo teatro perché la gente lo possa vedere, è impossibile non tenere in considerazione il pubblico. I nostri processi di creazione sono in continua relazione con il pubblico, andiamo in residenza artistica e presentiamo davanti a un pubblico una fase del lavoro, abbiamo un feedback da quel pubblico e in quel momento capiamo se ciò che stiamo facendo arriva o meno, se ha un senso al di là di ciò che noi pensiamo. Teniamo molto in considerazione il pubblico perché non lavoriamo in astratto, ma per qualcuno che viene a vederci».
Immagino che durante la composizione dei vostri lavori accumulerete un gran quantità di suoni e immagini, che valore ha questo archivio per voi?
A.S.: «Molto poco. Per realizzare un lavoro impieghiamo quasi due anni e durante quei due anni facciamo varie aperture del lavoro in progress, siamo, per ciò, molto abituati a scegliere a prendere questi materiali e testarli, come diceva prima Pau, e, se non dovessero funzionare, li scartiamo immediatamente».
P.P.: «Archiviamo molto male…».
A.S.: «Perché in realtà non abbiamo nessun tipo di affezione per quei materiali. Siamo molto ordinati e usiamo gli strumenti digitali, Pau vive in Italia e io in Spagna, siamo, quindi molto abituati ai vari Dropbox, Skype, Drive, Hangouts… ma dato che si tratta di processi lunghi, non si ha tanto bisogno di archivio ma di costanza. Non abbiamo ne affetto ne rispetto per l’archivio».
P.P.: «Non accumuliamo, quando finiamo un progetto se guardi i nostri computer rimane solo ciò che è stato salvato, il materiale non salvato per lo spettacolo finale a volte si mette in una memoria esterna e non ci si pensa più».
Agrupación Señor Serrano
Siamo nell’era delle immagini, siamo invasi dalle immagini ma, forse, vediamo molto e guardiamo poco, vi interessa tornare all’immagine in quanto immagine?
«È sì il tempo delle immagini, ma in fondo quante più immagini ci sono più perdono di significato. Il nostro teatro si basa sulla metafora, sull’uso di immagini che simboleggiano una cosa per parlare di un’altra ed è una cosa su cui lavoriamo molto. Ad esempio in Birdie si parla di migrazione ma vedremo immagini relative ai flussi migratori degli animali, parleremo della paura ma sarà Hitchcock a farlo per noi. C’è sempre un esercizio di sovversione dell’immagine che ci permette di avvicinarci alla realtà, perché la realtà è così scivolosa che è impossibile parlarne con le sue stesse immagini».
Non sono molte le compagnie spagnole che arrivano in Italia, potete dirci qualcosa della scena artistica spagnola in questo momento?
A.S.: «Quest’anno facciamo più date in Italia che in Spagna…».
P.P.: «Dopo il 2008 il Partido Popular ha approfittato della scusa della crisi per fare tabula rasa di tutto: festival, teatri, curatori di arte contemporanea, di quell’arte che potesse dare un po’ fastidio…
Da due o tre anni nei quali al potere, soprattutto nelle città, sono stati eletti alcuni partiti collegati all’idea della sinistra, sono tornati alcuni festival, che adesso sono alla prima o alla seconda edizione, all’interno dei quali vengono programmati questo tipo di lavori che, soprattutto, vengono retribuiti in maniera giusta. Nella fase precedente c’era ancora qualche possibilità di lavorare, ma con pochissimo budget».
A.S.: «La scena spagnola è una scena ricca di teatro classico e di prosa, con una rete e delle tournée molto attive per quanto riguarda sia questo tipo di teatro che un teatro di tipo più commerciale. Il teatro contemporaneo è ancora relegato a un contesto marginale, o come nel nostro caso, o quello di alcune altre compagnie, a trarre i propri frutti dalle tournée estere. L’ 85% delle nostre date sono internazionali, riceviamo pochissimi fondi statali, perché ciò che ci da da vivere è la tournée, che è principalmente estera».
Una parola per descrivere il vostro lavoro:
«Simulacro».
Un libro che ti ha segnato:
«2666 Roberto Bolaño».
Se potessi scegliere un personaggio (della storia, dell’arte, della letteratura…) da invitare a cena, chi inviteresti?
A.S.: «Più che a cena parteciperei volentieri a una delle feste di Andy Warhol».
Paola Granato