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A teatro c’è chi guarda e chi recita. Ma non è detto che chi guarda sia il pubblico. Anzi, sempre più spesso oggi è richiesta la partecipazione degli spettatori, chiamati a lasciare la propria poltrona e agire in scena, per creare la storia, come nel caso dei Rimini Protokoll con Remote Milano (di cui ho parlato qui), o anche per essere complici della creazione drammaturgica della performance, come nel caso di Domini Públic, spettacolo del 2008, arrivato a Milano nell’ottobre 2016 grazie a Zona K. Allo spettattore non è quindi più chiesto solo di applaudire, ma di essere parte dell’atto creativo, a 360 gradi. In questa direzione va anche lo spettacolo We are Gob Squad and so are you dei Gob Squad, collettivo anglo-tedesco nato nel 1994 e arrivato per la seconda volta a Milano grazie a Zona K.
Gob Squad, Revolution Now
In piedi davanti al microfono Sean Patten si presenta e introduce i suoi compagni di viaggio: su un divano siedono tre ragazzi, due sono Marco Cavalcoli e Andrea Argentieri di Fanny & Alexander e uno è un ragazzo con delle cuffie wireless. Ma per una sera sono tutti Sean e tutti membri di Gob Squad. Dal divano uno degli attori si alza, si dirige verso il pubblico e gli mette altre cuffie, poi Sean e il duo di Fanny & Alexander escono andando verso una sala comandi, comunque ben visibile, dalla quale parlano e danno ordini nelle cuffie dei ragazzi rimasti soli in scena: attraverso quella che il collettivo definisce “remote acting”, i due con indosso le cuffie sono controllati e manovrati da remoto e così l’intero spettacolo è “recitato”, o meglio suggerito, dal pubblico che man mano viene chiamato sul palco e istruito attraverso il dispositivo wireless.
Cosa vuol dire mettersi in scena e recitare? Ma soprattutto chi è che recita e cosa? Il gioco metateatrale proposto dai Gob Squad si presenta come la messa in scena dello Io, che si sviluppa nella grande macchina che è il sistema. Attraverso il semplice meccanismo dell’immedesimazione dell’attore, quindi nel fingere di essere qualcun altro, seppur continuando a essere sé stessi, il collettivo interroga il pubblico sulle proprie responsabilità pubbliche e individuali, e la capacità di costruire la propria personalità all’interno di una società.
Gob Squad, Revolution Now
Dall’intento politico più dichiarato è Revolution Now!, sempre del collettivo Gob Squad, arrivato a Milano grazie alla collaborazione, ormai efficace e collaudata, tra il Teatro dell’Arte e Zona K. Il meccanismo è semplice ma dal forte impatto: uno schermo installato su Viale Alemagna, fuori dal CRT, mostra ai passanti quello che avviene in sala, ovvero una pseudo occupazione con tanto di finti ostaggi e un improbabile notiziario sull’evoluzione dell’occupazione e l’ormai prossima rivoluzione. L’obiettivo è bloccare qualcuno in mezzo alla strada per convincerlo a unirsi al gruppo: dopo diversi tentativi falliti, due ragazze si fermano e aderiscono al progetto. Vengono quindi portate in sala e osannate come paladine della rivoluzione. Ma cosa vuol dire fare la rivoluzione? Andare a teatro, allevare una figlia con ideali femministi e ospitare migranti in casa, basta questo?
Il rischio è che diventi tutto spettacolo, come la maggior parte degli happening, dei quali l’intento politico finisce nel momento stesso in cui si spengono i riflettori, campagne mirate che muovono l’orizzontalità del web, ma ben lontane dal creare gesti di rilevanza sociale. E anche questa Revolution Now! si conclude con shot di vodka e succo di frutta, distribuiti al pubblico per festeggiare un qualcosa che non si è compiuto.
Giulia Alonzo