Il popolo osservato nella sua quotidianità. Nella vita e negli ambienti di tutti i giorni: nella periferia, al bar, al supermercato o sul marciapiede. Quello stesso popolo che però è anche “osservante”, e capace di giudicare alla superficie ogni avvenimento: senza preoccuparsi di guardare oltre le apparenze e la visione sintetica tipica della società attuale. È lo scenario raccontato da Ascanio Celestini nello spettacolo Pueblo, in tour con varie date nella Penisola, che rappresenta la seconda tappa di una trilogia inaugurata a Romaeuropa Festival nel 2015 con lo spettacolo Laika, e ripreso con l’edizione 2017 della kermesse capitolina.
Celestini torna quindi nella periferia, tra la gente, negli stessi luoghi in cui palpitava la vita della sua precedente creazione, nelle vesti di un eclettico osservatore, un po’ folle e un po’ filosofo. O, meglio, un po’ guardone e un po’ poeta: cogliendo la differenza, neanche troppo sottile, tra chi spia l’esistenza degli altri spinto dalla sola smania di conoscere le azioni del prossimo, e chi, come il poeta, si interessa sì alla vita degli altri, ma solo per cercare soggetti, e immaginare il resto da sé.
Nasce così la storia di Violetta, la giovane cassiera che per non pensare al lavoro umile che non consente neppure di andare in bagno, sogna di essere regina di un regno incantato in cui i clienti sono sudditi e le merci acquistate dei doni che le vengono offerti. Ma senza guardare, né riconoscere, nessuno. Limitandosi a un “grazie e buona giornata”. In questo regno immaginifico si incrociano le storie del nostro popolo: storie feroci ma poetiche di vari personaggi, feriti, disillusi e traditi dalla vita. Voci differenti che s’incontrano all’interno di un bar – quello con le slot machine, come nel film Via la sposa – per ritrarre un universo fatto di povertà, ma capace di brillare come un diamante o un mondo senza dei – come quello di Laika – in cui, nonostante tutto, molti miracoli dovranno accadere.
Accompagnato dalle musiche originali composte da Gianluca Casadei, l’artista romano, fra i più rappresentativi del teatro di narrazione, crea un nuovo ritratto dei margini della società e invita lo spettatore a identificarsi con i suoi protagonisti: personaggi che, al di là della loro particolare condizione sociale, come tutti noi, affrontano la propria condizione di esseri umani.
Ascanio Celestini, Pueblo
Siamo noi, dunque, i personaggi di questo voyeurismo illuminato messo in scena da Celestini: noi – persone e spettatori, società e, quindi, “popolo” – portatori di storie e al tempo stesso affamati di storie. Proprio come un guardone: esigendo un porto in prima fila per scrutare il mondo esterno, uguale e diverso da noi. Provando a scostare quel velo di ipocrisia e di indifferenza umana che corrode la società di oggi, tema sul quale insiste, e da tempo, Celestini come autore ed attore. Un gesto che equivale, forse, a quello di spostare la tenda che occulta la vista alla finestra riprodotta sul palco, diventando così un atto consapevole dello svelamento di anime solitarie e ai margini: come quella di Violetta che vive con la madre, della barbona Domenica la cui esistenza è confinata al gabbiotto del custode di un supermercato, o di Said che “gioca” con la vita tra lavoro e le slot. Scandendo il ritmo della vita quotidiana col susseguirsi dei gettoni inseriti in quella macchinetta. Un tempo che si comprime e si dilata, in una drammaturgia solo apparentemente improvvisata, che segue le storie di persone viventi e coinvolge il pubblico proprio perché vera, e autentica, come vita vissuta. Il linguaggio e l’immaginazione, insieme alla straordinaria forza evocativa di quei luoghi descritti da Celestini offrono uno scenario suggestivo, coinvolgente, arricchito da un a narrazione a montaggio alternato, accompagnata da momenti musicali a cura di Gianluca Casadei (alla fisarmonica), che entra ed esce dalle storie, come primo ascoltatore, e talvolta pure da interlocutore.
«A me interessava raccontare la storia di un luogo che normalmente conosciamo solo quando vi accade qualcosa di scandaloso, di tremendo, di violento – spiega Celestini – quando quello che accade, insomma, si trasforma in una notizia. E invece questo posto può essere osservato semplicemente perché esiste ogni giorno e non solo quando i fatti si trasformano in notizie. Qui abitano personaggi con un’umanità molto evidente il cui tratto principale è la debolezza. Sono deboli anche quando sono violenti, sono deboli anche quando sono cattivi, sono deboli anche quando sono colpevoli».
Per un nuovo ritratto dei margini della società, in cui ognuno di noi può identificarsi con i suoi personaggi, i quali, al di là della particolare condizione sociale, come tutti noi, affrontano la propria condizione di esseri umani. Forse, senza alcuna speranza. Ma con l’autore che ci offre il suo “dito magico” per aiutarci a capire che non è il tempo che fa invecchiare e morire, ma l’indifferenza, lascia in bocca il sapore amaro e insulso di un cappuccino decaffeinato.
Alessio Crisantemi