Categorie: arteatro

TEATRO

di - 26 Marzo 2019
Panorama, realizzato da Motus e prodotto con La Mama di New York, è una visione multiforme che meticcia non solo persone di nazionalità differenti, ma anche teatro, cinema, documentario, videoinstallazione, danza e anche pittura. È uno spettacolo dove la complessità e la stratificazione sono state tradotte in un modo che appare semplice e immediato. In quella maniera “televisiva”, che arriva diretta in pancia anche se non ne comprendi la lingua e perdi gli incastri drammaturgici o i sopratitoli. Per circa ottanta minuti ti tiene incollato alla visione e inizia da subito a scavare. È quasi inevitabile — o forse lo è stato per me —, tentare di rispondere alle domande che vengono di volta in volta poste agli attori che recitano se stessi: “Chi sei?”, “Quando ti sei perso?” “Che ruolo vuoi interpretare in questa performance?”…
E mentre rispondi entri anche tu in scena. E ti stratifichi con tutti loro che arrivano di corsa uno alla volta dalla porta d’entrata della sala, salgono sul palco e simulano un provino che è stato reale ma che ora serve alla fiction. Ma raccontano davvero di sé, parlano davvero della loro storia. Del quando e del perché sono arrivati a New York e di come ci si sente lì, in quel crogiolo di culture, in quel fermento di vite dove c’è sempre stata difficoltà ad accettare chi non fosse bianco. Ad esordire è proprio Valois Mickens, afroamericana, che ha iniziato a sentirsi fuori luogo già dall’errata pronuncia del suo nome Valois-Valoise. Ci parla delle discriminazioni subite, danza a seno nudo e quando lascia la scena, così come avviene per tutti gli altri, il suo volto compare su uno dei due schermi laterali.
Motus, Panorama
Da qui, ascolta e osserva con sguardo accogliente e rassicurante chi la succede. Gli altri, che non sono soltanto stranieri, ma sono anche ebrei, neri, drogati, spogliarelliste e, — chissà —, forse anche gay, lesbiche, ovvero tutto quell’altro che riattiva la parte oscura dei nostri abissi sconosciuti, spaventosi e pertanto non percorribili. Alle storie degli artisti in scena si sovrappongono, sullo schermo, altre storie. Fra queste, ricordo in particolare quella del ragazzo ugandese, accortosi di essere nero solamente una volta arrivato negli Stati Uniti. Poi, ancora sul palco, affaticati e straniti arrivano Richard Ebihara, cinese, Zishan Ugurlu, turca, Maura Nguyen Donohue, vietnemita. E ancora Perry Yung, cinese, John Gutierrez, dominicano del Bronx e eugene the poogene, coreano, il cui pseudonimo, scritto tutto in minuscolo, ricorda Winnie The Pooh, non solo nella pronuncia e nel godimento assuefante, che per l’orsetto era dato dal miele e per eugene dalle molte droghe sperimentate, quanto per le varianti, le storpiature e i fraintendimenti che ne ha subito il nome. Sì, il nome. Il tuo nome. È lì che sta l’identità. “Chi sei?”. Sono Valois, Richard, Zishan, Maura, Perry, John, eugene the poogene. Dare un nome è una responsabilità, sbagliarlo o non ricordarsene, il peggiore degli imbarazzi. Significa che non eri attento, che chi hai davanti non ti interessa. Che non esiste. Che sei caduto in un limbo e che tu, non ricordato e dunque non nominato, perdi l’orientamento. Esattamente quello che è accaduto a questi ragazzi, una volta arrivati in questa o in altre terre. Loro, dopo varie vicissitudini, disagi, fraintendimenti, hanno avuto la fortuna di essere stati accolti da Ellen Stewart, la grande madre fondatrice della compagnia, scomparsa nel 2013. È qui che forse dopo tante fatiche per affermare se stessi e il proprio diritto di spostarsi per vedere, sperimentare, cambiare, sbagliare, migliorare, si sono ritrovati. Qui che probabilmente il cinese Perry, come racconta in una parte del monologo, al contempo divertente e drammatico, non ha dovuto scegliere in mensa in quale scompartimento stare, se tra i bianchi, i neri o i messicani, visto che non vi erano altre possibilità. Ed è, spero, proprio qui, in quel meticciato di storie, culture, nomi, soprannomi, credo, orientamento sessuale, colori diversi della pelle, che si può ritrovare quella nuova controcultura di cui Marcelo Frediani parla in Sur les routes: le phénomène des New Travellers (Sulle strade: il fenomeno dei nuovi viaggiatori), e che secondo lui potrebbe provenire proprio dagli immigrati.
Eva Comuzzi
PANORAMA
ideazione e regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
 drammaturgia Erik Ehn e Daniela Nicolò con gli attori della Great Jones Repertory Company (Maura Nguyen Donohue, John Gutierrez, Valois Marie Mickens, eugene the poogene, Perry Yung/Richard Ebihara, Zishan Ugurlu)
musiche Heather Paauwe
assistenza alla regia Lola Giouse
sound design Enrico Casagrande
light design Andrea Gallo e Daniela Nicolò
video design USA CultureHub NYC con Sangmin Chae
video design Europa Paride Donatelli and Alessio Spirli
visual project Bosul Kim e Seung Ho Jeong
allestimenti Damiano Bagli
direzione tecnica Paride Donatelli produzione Elisa Bartolucci
logistica Shaila Chenet
comunicazione Marta Lovato e Estelle Coulon
progetto grafico e ufficio stampa comunicattive.it
distribuzione internazionale Lisa Gilardin
produzione La MaMa Experimental Theatre Club con Motus in coproduzione con Seoul Institute of the Arts, Corea | CultureHub, USA | Vooruit, Belgio | FOG Triennale Milano Performing Arts | Emilia Romagna Teatro Fondazione | Grec Festival, Spagna | L’arboreto – Teatro Dimora in collaborazione con Under The Radar Festival, USA con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna
durata: 80’

Nata nel 1977 è storica dell'arte e curatrice, collabora con MOROSO e ArtVerona. Lavora per diversi anni alla Galleria d'Arte Contemporanea di Monfalcone, specializzandosi nell'operato delle giovani generazioni. Al termine di questa esperienza, fonda NASAC (Nuova Accademia delle Arti Storico-Artistiche Contemporanee), progetto itinerante e trasversale che ha lo scopo, attraverso delle lezioni aperte a tutti, di far conoscere e divulgare le arti e la loro connessione con le altre discipline.

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