Un padre. Uno e trino. Nel corpo di un solo attore (che è peraltro anche il regista, cioè Mario Perrottra) tre padri, diversissimi tra loro per estrazione sociale, provenienza geografica e condizione lavorativa, che si alternano sul palco in un flusso ininterrotto di storie, intrecciate tra loro. Così diverse, eppure così simili. Accomunate dall’incomunicabilità ormai dilagante tra genitori e figli. A distinguere i tre genitori intervengono il dialetto o l’inflessione, e la bravura dell’interprete, capace di far apparire corpi diversi, ora mesti, ora grassi, ora tirati e severi, giocando unicamente sulla gestualità o la postura. Senza ricorrere a travestimenti. Al massimo una sola giacca o una camicia, a rafforzare le diverse personalità.
Tre uomini completamente diversi, ma tutti e tre di fronte a un muro: la sponda del divano o la porta di una stanza che li separa dal figlio, ognuno il suo. I figli adolescenti sono dunque gli interlocutori disconnessi di questi dialoghi mancati, l’orizzonte comune dei tre padri che, a forza di sbattere i denti sullo stesso muro, smussano le loro differenze per ricomporsi in un’unica figura.
È lo sguardo sul presente di Perrotta, accompagnato nella drammaturgia da Massimo Recalcati, per indagare quanto profonda e duratura è la mutazione delle famiglie definite “millennials” e quanto di universale, eterno, resta ancora. In uno spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, divenuto subito una trilogia (In nome del padre, della madre, dei figli) di cui è in scena ora il primo atto. Quello dei padri, appunto. In un tempo che rappresenta “il tempo del tramonto dei padri”, secondo Recalcati. Dove la loro rappresentazione patriarcale che li voleva come bussole infallibili nel guidare la vita dei figli o come bastoni pesanti per raddrizzarne la spina dorsale si è esaurito irreversibilmente. Nella “evaporazione del padre e di tutti i suoi simboli”, in cui ogni esercizio dell’autorità è vissuto con sospetto e bandito come sopruso ingiustificato. E’ qui che i padri smarriti si confondono coi figli: giocano agli stessi giochi, parlano lo stesso linguaggio, si vestono allo stesso modo. Facendo collassare quella differenza simbolica tra le generazioni a cui tutti eravamo abituati. E che rende oggi più difficile essere padri. E genitori. Ma anche figli. Da qui la necessità di ricorrere a una trilogia. Ne Il nome del padre, in scena nei vari teatri della Penisola, Perrotta propone il linguaggio dell’arte – e in questo caso, quello del teatro – per dare un contributo essenziale a cogliere l’evaporazione della figura tradizionale della paternità, e il difficile transito verso un’altra immagine – più vulnerabile ma più umana – di padre della quale i nostri figli – come accade a Telemaco nei confronti di Ulisse – continuano ad invocarne la presenza.
Alessio Crisantemi
In nome del padre
uno spettacolo di Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
con Mario Perrotta
regia, scene e luci Mario Perrotta
collaborazione alla regia Paola Roscioli
costumi Sabrina Beretta
produzione Teatro Stabile di Bolzano