Presentato dal Peak Performances, la premiere statunitense di Democracy in America, diretto e progettato da Romeo Castellucci e scritto insieme alla sorella Claudia, ha esordito all’Alexander Kasser Theater dell’Università della Montclair in New Jersey.
Indagare la storia nel percorso ruvido e tortuoso dove le identità umane si mescolano, si incontrano/scontrano e danno forma a regimi, democrazie, stati totalitari. Ricostruire avvenimenti storiografici attraverso il tormento o la felicità degli individui e svilupparli dalla scrittura al gesto.
Maestro di ombre e meccanismi suggestivi, Romeo Castellucci giustappone nella regia una composizione di codici artistici condensando la pittura, l’architettura, la musica e la scultura. Nelle produzioni teatrali Castellucci con la sua avanguardia stilistica, applica una matrice di tipo tradizionale la cui impronta viene avvolta dal modernismo tecnologico, lasciando lo spettatore divorato dalla oscurità dell’opera stessa.
Per questo tipo di spettacolo, sempre firmato dalla Socìetas Raffaello Sanzio, Castellucci ha liberamente preso ispirazione all’omonimo libro di Alexis de Tocqueville, Democracy In America pubblicato nel 1835 dopo un viaggio negli Stati Uniti. Con questo lavoro l’attivista francese analizzava le basi del sistema democratico americano, per comprendere meglio i principi del diritto in rapporto alla politica francese ed europea di quegli anni. Secondo Tocqueville infatti, il fondamento della democrazia è nel puritanesimo che concepisce una società non aristocratica dove tutti sono allo stesso livello tranne i neri indiani e le donne (ovviamente).
In un cast composto da sole donne, la rappresentazione si apre con un gioco di parole. Un gruppo che indossa un’uniforme bianca che ricorda quella degli ufficiali della prima guerra mondiale, con ornamenti d’oro intorno alla vita, ha una bandiera bianca arricciata. Come in un team di majorette pronte al rituale coreografico, le 12 in questioni si preparano a dispiegare le bandiere e le lettere maiuscole raffigurano il titolo dello spettacolo, Democracy in America, per poi creare degli anagrammi come decadimento, army, medicare, macaroni, crime… tutte parole che hanno un valore specifico nella società americana.
Democracy in America, Peak Performances 1 PC Marina Levitskaya
Castellucci nella costruzione scenica rimane schematico lasciando la potenza al linguaggio, ma per chi è familiare con i suoi lavori, si riconosce la presenza inscindibile di Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso nella costruzione delle sculture e dei meccanismi di scena.
Il capitolo con cui comincia è quello relativo ai Nativi americani, la tribù Ojibwe e l’insediamento in terre Indiane da parte di Europei. I due indiani, che parlano in lingua Ojibwe, con sottotitoli in inglese sullo sfondo, si chiedono se sia opportuno apprendere la lingua Inglese per poter così combatterla dall’interno.
Lingua dominante contro lingua minoritaria, una guerriglia di sentimento di appartenenza e di identità culturale. In maniera provocatoria c’è una linea di demarcazione forte e specifica nella quale le attrici hanno i volti non visibili dal body indossato. “Chiedo rispettosamente alle comunità di lingua Ojibwe di voler comprendere la necessità di utilizzare la loro lingua, perché questo è l’unico modo per capire il principio di violenza insito nel linguaggio, inteso qui come campo di battaglia”, spiega Romeo Castellucci.
“È con il linguaggio dei bianchi che i Nativi sono stati massacrati; un linguaggio che fu tendenziosamente incomprensibile, capace di inventare leggi sui territori di sana pianta; un linguaggio che fu utile per creare mappe e carte, le cui parole inglesi hanno permesso al bianco di violentare ‘legittimamente” le terre indiane e i loro abitanti. Lo spettacolo non è un discorso storico sui popoli Indiani. È osservare il potere del linguaggio su tutta l’umanità in tutti i tempi”.
Il lavoro visionario del maestro si sviluppa attraverso una “rimediazione” e trasposizione da un medium all’altro, nella quale il linguaggio e la gestualità vengono plasmate con forza in un mosaico composto da tante piccole storie che gridano al mondo la muta violenza del passato e del destino subito. La lingua è il perno che regge la colonna teatrale e che in tutte le sue declinazioni ci fa respirare questo nucleo drammatico. Siamo come parte di un clan che osserva la costruzione di una nazione, che attraverso la tragedia ripercorre il nascere di una new democracy in quella mescolanza di coscienza collettiva fatta di sapere, potere e scontro.
Elizabeth e Nathaniel, una coppia di coloni bianchi si lamentano del raccolto disastroso. In una conversazione di chiaro stampo biblico, lui insiste nella fede in Dio, nella speranza di una trasformazione dell’America nella nuova terra promessa attraverso la semina; lei in un delirio di disperazione, inveisce contro quel Dio, si lascia trasportare alla disperazione e ne diffida e in preda alle urla ripete delle blasfemie.
In un vortice nebuloso si intravedono danze dal sapore sabbatico, rituali perturbanti toccati con magia e minaccia; sentiamo una canzone da lavoro dal Sud e gente che parla idiomi indifferenti; proiettate vediamo una serie di date limite nella formazione degli Stati Uniti.
Castellucci, come un pittore ha ritratto un affresco di un mondo lontano, fatto di paradossi e stermini, spettri di un passato che ci fa sentire lontani dalla attualità politica di oggi… un lavoro sull’antico testamento e sulla distruzione di quei dogmi ritenuti saldi e che invece si sgretolano come le certezze.
Mila Tenaglia